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giovedì 19 settembre 2024
 
 

Immigrati e profughi, calvario continuo

08/04/2013  È primavera e tornano gli sbarchi sulle coste siciliane. Il Mediterraneo è una tomba d'acqua. E a Torino più di 300 africani occupano il villaggio olimpico

Quasi 500 sbarchi negli ultimi due giorni di marzo. Sulle coste di Lampedusa, come avviene ormai da molti anni, con la bella stagione riprendono i viaggi della speranza. E, con i viaggi, le morti. Il Mediterraneo, che dal 2008 a oggi ha visto scomparire nei suoi fondali almeno 20mila persone, è stato ribattezzato “la tomba d’acqua”.

«L’uomo non può morire perché vuole vivere», ha più volte detto l’arcivescovo di Agrigento monsignor Francesco Montenegro. «Oggi si parla tanto di diritti umani e poi permettiamo che tanti uomini, tante donne, tanti bambini muoiano perché desiderano una vita migliore».

Il sindaco dell’isola, Giusi Nicolini, ha lanciato nuovamente l’appello: «Siamo in emergenza. Il centro di prima accoglienza di contrada Imbriacola ha solo 300 posti; la permanenza deve essere breve». Ma, mentre si provvede a svuotare il Centro prima di nuovi previsti sbarchi, la Commissione episcopale per le migrazioni (Cemmi) e la Fondazione Migrantes chiedono anche che ci si continui a occupare di quanti sono arrivati nel nostro Paese negli scorsi anni. Le due organizzazioni si mostrano preoccupate «per i ripetuti casi di morte di giovani immigrati che in Italia vivono in condizioni drammatiche, in alloggi di fortuna senza i requisiti minimi di sicurezza». In particolare, l’attenzione è rivolta ai minori e ai profughi.

Finita, lo scorso primo marzo, la cosiddetta “emergenza Nord Africa” – che era stata affrontata con decreto – restano in attesa di conoscere il loro destino circa 13mila profughi. Per loro, denuncia il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), gli ultimi interventi del Governo sono «insufficienti per una soluzione e avvenuti con troppo ritardo».

Da tempo il Cir aveva chiesto di garantire sia borse di studio che borse lavoro (con un’iniziale assistenza alloggiativa) per permettere l’integrazione nel nostro Paese, laddove non fosse possibile ipotizzare un assistito rientro in patria con «iniziative di reintegrazione nei Paesi di origine nell’Africa Sub-sahariana».

Apprezzamenti, invece, per la decisione di rilasciare il permesso di soggiorno per motivi umanitari a gruppi vulnerabili come vittime di tortura, famiglie numerose e minori non accompagnati. Per questi ultimi il Cir chiede che siano sempre identificati, così come prevede la legge,durante i respingimenti, e che si presuma la minore età se sono senza documenti.

«La mancanza di fondi può mettere a serio rischio i programmi d’accoglienza per i minori stranieri anche nelle regioni dove stanno funzionando bene». Il Garante per l’infanzia, Vincenzo Spadafora, lancia l’allarme proprio nel momento in cui gli sbarchi cominciano a intensificarsi. Il Garante, che tutela tutti i minori presenti sul territorio nazionale, è particolarmente attento «ai minorenni stranieri non accompagnati, che sono tra i bambini e gli adolescenti più vulnerabili e a rischio».

«Per loro», spiega, «la normativa prevede un ampio sistema di tutele e di protezione che presenta moltissime criticità, ma anche esperienze positive d’accoglienza e inclusione sparse sul territorio. Queste devono essere rese permanenti, sostenendo adeguatamente le istituzioni nazionali e locali competenti e le organizzazioni impegnate in questo ambito. Noi stiamo lavorando in questa direzione, intanto con un lavoro di raccolta e di sintesi delle buone prassi, affinché queste vengano diffuse su tutto il territorio nazionale, per arrivare a una omogenea qualità dell’accoglienza».

Tra i punti più critici Spadafora sottolinea «la determinazione della minore età e il meccanismo di nomina del tutore. Ci sono esperienze d’eccellenza in Italia, che spesso sono il semplice frutto di buone sinergie territoriali, non solo di investimenti economici. Il nostro contributo è di facilitare, insieme ai garanti regionali, la messa a sistema di meccanismi che funzionano». Per il Garante «un altro ruolo fondamentale è quello di ascolto dei ragazzi, anche per aiutare a portare alla luce le loro storie. È incredibile il bagaglio di sofferenza, ma anche di speranza e di responsabilità, che trapela dalle loro parole».

Al momento degli sbarchi, insiste Spadafora, «è necessario che a tutti minorenni sia garantita la possibilità di ricevere, in un linguaggio per loro comprensibile, le corrette informazioni sulla normativa italiana. Questo deve avvenire subito, al momento in cui il presunto minorenne si interfaccia con le autorità italiane. Una volta arrivato, è anche importante garantire l’ascolto, facendo molta leva sulla presenza di mediatori culturali e interpreti che spesso, soprattutto nelle situazioni di emergenza, non sono presenti in numero sufficiente. È fondamentale, inoltre, che il sistema d’accoglienza e tutela sia avviato in tempo brevissimo. Non è accettabile lasciare questi ragazzi troppi giorni, a volte settimane, nell’incertezza. Per questo è fondamentale mettere a punto procedure di nomina e presa in carico dei tutori che siano efficaci, anche nel rispetto delle indicazioni internazionali».

In questo lavoro è fondamentale anche il lavoro delle forze di polizia. Il vicecapo della polizia, Francesco Cirillo, sottolinea che il lavoro delle forze dell’ordine è finalizzato, «in via prioritaria, ad assistere i migranti fin dall’avvicinamento alle coste nazionali per porre fine al loro notevole disagio dovuto alla traversata in condizioni estreme. Una volta giunti sulla terraferma, si procede alla tempestiva assistenza insieme con le organizzazioni di volontariato».

Ai migranti si cerca di garantire pasti caldi, vestiti asciutti, coperte e tutto ciò che può servire a far riprendere le forze. Nello stesso tempo si cerca di «identificare i minori e di separarli dai maggiorenni, in quanto la normativa italiana non consente il loro rimpatrio. Si vuole, nel contempo, evitare di inviare in strutture destinate ai minori persone maggiorenni. Al fine di stabilire l’età dei migranti, all’apparenza minori ma privi di documenti, si procede a esami antropometrici, d’intesa con l’autorità giudiziaria. Nei casi dubbi, si tende a considerare il soggetto minore, applicando il generale principio del “favor”. I minori, cosi identificati, vengono avviati a percorsi che privilegiano la loro tutela, la loro totale assistenza e il loro pieno inserimento nel tessuto sociale del territorio nel quale si trovano, attraverso l’affidamento a famiglie e la scolarizzazione».

All’inizio erano un centinaio, ma il loro numero s'è ben presto quadruplicato. Ora sono già 400 (e  la lista d’attesa ne conta altri 250): chi sa quanti altri potrebbero ulteriormente arrivare nelle prossime ore. Sono i profughi africani che occupano tre palazzine abbandonata dell’ex villaggio olimpico di Torino. Quasi tutti rifugiati politici o richiedenti asilo, per due anni sono stati ospitati in comunità e centri d’accoglienza, come previsto dal progetto Emergenza Nord Africa.

Ma il 28 febbraio, tra incomprensioni e anomalie burocratiche, l’emergenza è “scaduta” e loro si sono ritrovati in strada. Dopo notti all’addiaccio, alcuni hanno cominciato a sistemarsi in una casa provvisoria. Un tetto di fortuna, senza riscaldamento né gas e in condizioni igieniche difficili, ma pur sempre un tetto. Poi, il passaparola ha fatto il resto. Dove nel 2006 alloggiavano gli atleti arrivati a Torino per le Olimpiadi invernali, oggi restano stanze spoglie e inutilizzate, minacciate dal degrado, triste paradosso urbano. È qui che dormono i profughi, anche dieci in una stanza, su materassi improvvisati.

Sono in maggioranza uomini, ma ci sono anche una ventina di donne e 9 bambini. Sono un mosaico vivente di lingue e di culture, dal Ghana al Niger, dal Ciad al Mali, dalla Somalia al Burkina Faso. Sono musulmani, ma anche cristiani ortodossi e di varie chiese protestanti. La maggior parte di loro ha trascorso gli ultimi due anni in Piemonte, ma c’è anche chi sta arrivando da altre regioni, attirato dal miraggio di una casa. Che però è illegale e potrebbe essere sgomberata da un momento all’altro. Le difficoltà sono evidenti. Eppure, nonostante tutto, il clima è di grande collaborazione.

All’interno della casa vigono regole precise e tutti si danno da fare come possono: c’è chi pulisce le stanze e chi si occupa dell’inventario di cibi e vestiario. Colpisce lo strano connubio tra degrado e ordine, disagio e pulizia. I profughi sono aiutati da una ventina di giovani del comitato Solidarietà ai rifugiati, movimento spontaneo in cui convivono anime diversissime, dal mondo delle parrocchie alla galassia dei centri sociali.

«Servono – spiega Carlo, giovane insegnante d’italiano che fa parte del comitato – generi di prima necessità, soprattutto materassi, coperte, cibo, acqua e assistenza sanitaria». Tante le associazioni che si stanno mobilitando, molte di area cattolica, dal Cottolengo al Banco alimentare. E c’è la solidarietà dei residenti della zona, che arrivano portando pacchi di cibo e vestiti. «Ma l’emergenza – prosegue Carlo – non può durare per sempre. Bisogna in qualche modo dare una risposta alle rivendicazioni di queste persone, che non chiedono la carità, ma un lavoro».

Abdirahman, 27 anni, è nato in Darfur (Sudan), terra martoriata da una sanguinosa guerra. Inseguendo una vita migliore si è spostato in Libia, dove ha lavorato come falegname e come addetto alle pulizie in un supermercato. Ma nel 2011 la guerra lo ha raggiunto anche lì: ha visto i rastrellamenti di Gheddafi e, come migliaia di altre persone, è stato costretto a salire su un barcone assieme a sua moglie e suo figlio di 8 anni, alla volta di Lampedusa.

Da Lampedusa a Pavia, alla ricerca di lavoro, poi da Pavia a Torino, dove, sempre con la moglie e il figlio, ha trascorso diverse notti alla stazione di Porta Nuova prima di approdare nella casa occupata. La storia di Abdirahman ricalca quella di tanti altri: il denominatore comune è il passaggio attraverso la Libia di Gheddafi e lo sbarco sulle nostre coste: per molti una deportazione, la cosiddetta Emergenza Nord Africa, appunto.

Ibrahim, 25 anni, è originario del Niger. In Libia faceva il netturbino. Arrivato in Italia ha trovato ospitalità in un centro d’accoglienza per migranti a Settimo Torinese. Ma da quando l’emergenza è finita si è arrangiato dormendo in strada. Come Frank, classe 1987, ivoriano che in Libia aveva trovato un lavoro da piastrellista. Oggi per lui è difficilissimo immaginare un futuro: non sa dire se sia meglio rientrare nel suo Paese o restare qui. È la condizione drammatica di tanti rifugiati politici.

Accolti dall’Italia proprio in virtù del loro status (quindi non clandestini, ma cittadini regolari) si trovano intrappolati in una sorta di limbo. Qui non hanno un lavoro né un posto dove stare, ma non possono neppure andarsene, perché alle frontiere vengono identificati attraverso le impronte digitali e rimandati indietro.

«La nostra città ha una feconda tradizione di accoglienza – scrive in un comunicato monsignor Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino - ma non può essere lasciata sola ad affrontare una situazione che interroga ed esige l’impegno di tutta la nostra regione, oltre che del nostro intero Paese. L’importante è che non si risponda all’emergenza solo con provvedimenti tampone».

L’occupazione, soluzione estrema, non è priva di pericoli. «È una strada che non porta da nessuna parte», mette in guardia don Fredo Olivero (Migrantes), da oltre 30 anni al servizio degli ultimi. «Il rischio è di ridurre tutto all’assistenzialismo, trattando i rifugiati come dei pacchi, mentre queste persone avrebbero diritto a una residenza, anche sul piano legale. Soprattutto avrebbero bisogno di essere prese sul serio, aiutate ma anche responsabilizzate. Grazie al coordinamento Non solo asilo e alla rete di associazioni che vi aderisce, in quattro anni siamo riusciti a inserire 426 persone, sia singoli che famiglie, in contesti di lavoro e di studio. Ci sono storie di bambini rifugiati che vanno a scuola con i coetanei italiani, storie di solidarietà tra famiglie e integrazione vera. Oggi – prosegue don Fredo – anche a causa della crisi, a Torino il lavoro non si trova quasi più. Bisogna spostarsi altrove, nei piccoli comuni della provincia o della regione. E le istituzioni devono essere disponibili a collaborare. È una strada in salita, ogni giorno più difficile, ma non impossibile».

 
 
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