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venerdì 21 marzo 2025
 
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Immigrazione, “Ponti non muri”, il progetto del Cir in 5 proposte

09/02/2016  Viene presentato oggi, 9 febbraio, a Roma: «È arrivato il momento di dire basta ai soldi ai trafficanti, basta morti in mare e viaggi pericolosi», dice . Ci sono alternative concrete, già sperimentate, per consentire a chi ne ha diritto di arrivare in modo protetto e legale in Europa», dice Christopher Hein, fondatore del Cir e consultore del Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti ed Itineranti.

L’anno scorso sono affogati 3.770 uomini, donne e bambini nel Mar Mediterraneo; nel solo gennaio 2016, in un mese in cui tradizionalmente gli sbarchi si fermano per il mare mosso, i morti sono già stati 244. Pericolosa è anche la rotta balcanica: a luglio, quando arrivarono in Grecia 50 mila profughi (perlopiù siriani), si parlò di “flusso straordinario”; a gennaio, nel pieno del freddo che negli passati bloccava i viaggi, gli arrivi sono stati 55 mila.

Quasi tutti hanno diritto alla protezione umanitaria per le leggi europee e internazionali. Del resto, si stima che il 95% di tutti i richiedenti asilo nell’UE sia entrato in maniera irregolare.

La prima famiglia siriana giunta legalmente in Italia, accolta dalla Comunità di Sant'Egidio.
La prima famiglia siriana giunta legalmente in Italia, accolta dalla Comunità di Sant'Egidio.

«È arrivato il momento di dire basta ai soldi ai trafficanti, basta morti in mare e viaggi pericolosi. Ci sono alternative concrete, già sperimentate, per consentire a chi ne ha diritto di arrivare in modo protetto e legale in Europa». A dirlo è il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), che il 9 febbraio a Roma (Sioi, ore 15.30) presenta “Ponti non muri. Garantire l’accesso alla protezione in Europa”, una pubblicazione finanziata dal Gruppo Unipol.

Cinque le proposte: le sponsorizzazioni umanitarie, i programmi di reinsediamento e quelli  di ammissione umanitaria, i visti umanitari e la possibilità di presentare domanda d’asilo presso le autorità consolari europee nei Paesi di origine e di transito. Ne parliamo con il curatore del testo Christopher Hein, fondatore del Cir e consultore del Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti ed Itineranti.

 - Il 4 febbraio è arrivata in Italia la prima famiglia siriana in modo legale. È un primo modello?

«Sì, è un’ottima iniziativa promossa dalla Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e la Tavola Valdese, insieme ai Ministeri degli Esteri e dell’Interno. Riguarderà 1.000 persone, quindi un numero ancora piccolo, ma è un passo nella giusta direzione. Rientra nelle cinque possibilità che indichiamo nella guida: si tratta della sponsorizzazione da parte di privati, siano associazioni come Sant’Egidio o familiari residenti nel Paese di arrivo, che si impegnano a coprire le spese del viaggio e, per un determinato periodo (in Canada è un anno), del mantenimento del profugo invitato, dell’insegnamento della lingua e del suo inserimento sociale. Grazie a questa misura, in Germania 20 mila siriani si sono ricongiunti con i loro familiari e amici. In Canada, invece, ci sono associazioni, sindacati, parrocchie, circoli culturali, o addirittura condomini, che si uniscono e sponsorizzano una o più famiglie, seguendone poi il percorso di accoglienza. Questa è una delle alternative ai barconi; a nostro avviso l’Europa e l’Italia dovrebbero prevedere tutte e cinque le opzioni».


Yasmine e Falak, madre e figlia della famiglia siriana giunta in Italia il 4 febbraio.
Yasmine e Falak, madre e figlia della famiglia siriana giunta in Italia il 4 febbraio.

 - Qual è la seconda misura che proponete?

«Il reinsediamento, in collaborazione con l’Unhcr delle Nazioni Unite. Consiste nel trasferimento (in modo regolare) dei profughi dal Paese di transito a un altro Stato che ha acconsentito ad accoglierli e offrire loro protezione. Concretamente vuol dire trasferire i siriani, a cui viene riconosciuto lo status di rifugiati, dal Libano, Giordania, Turchia, Egitto, Iraq (sono i Paesi dove si trova il 95% dei profughi), o gli eritrei dalle megatendopoli del Kenya e dell’Etiopia. Il reinsediamento è già stato praticato, seppur in numero esiguo: nel 2014 solo 7.268 rifugiati sono stati reinsediati nel Vecchio continente, mentre gli Stati Uniti hanno fatto lo stesso per 73.011 persone, l’Australia per 11.570 e il Canada per 12.277. I Paesi europei che vi hanno aderito sono stati solo dieci, ricevendo un contributo tra i 6 e i 10 mila euro per ogni rifugiato; l’Italia ha partecipato con 450 siriani e 50 eritrei».

 - La terza modalità sono i Programmi di Ammissione Umanitaria.

«Sì, è l’opzione proposta dalla Germania per i siriani quest’estate. La modalità è analoga al reinsediamento, ma con una differenza sostanziale: non viene concesso l’asilo politico, ma una protezione temporanea sulla base di motivazioni umanitarie; vengono privilegiate persone vulnerabili, a cui viene garantito un permesso di soggiorno di breve durata, il cui rinnovo è subordinato al perpetuarsi delle necessità di protezione. Oltre ai 20 mila giunti con le sponsorizzazioni private, con questo programma il Governo tedesco ha fatto arrivare ulteriori 20 mila siriani nel 2013-14. Anche qui il problema sono i numeri: con tutti i 28 Stati dell’UE più la Norvegia e la Svizzera, si arriva a 30 mila, compresi i 20 mila in Germana, 500 in Gran Bretagna, 1.500 in Austria. Riguarda solo siriani e in alcuni casi eritrei, ma ad esempio non somali o afghani, nazionalità molto presenti tra i profughi».

 - La quarta e quinta opzione hanno una differenza importante rispetto alle prime…

«Sì, per rientrare nei primi tre programmi si deve essere selezionati, mentre queste due sono alternative senza quote fisse. La prima è la possibilità di chiedere un visto umanitario presso le autorità consolari europee nei Paesi di origine e di transito. Teoricamente questa possibilità è già prevista, ma nella pratica non esiste, o comunque viene applicata nella totale discrezionalità del singolo consolato o Stato. Prendiamo il caso di una donna eritrea perseguitata dalla dittatura di Afewerki: con questa modalità, anziché dover prendere il barcone tramite i trafficanti e fare domanda di asilo una volta giunta in Europa, potrebbe chiedere un visto in un consolato ad Asmara, oppure in Kenya, in Etiopia, o al Cairo. Qualora abbia risposta positiva, potrebbe poi arrivare legalmente in Europa e completare i documenti. La quinta opzione sono le Procedure di Ingresso Protetto (Pep): la modalità è la stessa della precedente, ma, anziché il visto umanitario, si chiede l’asilo politico. In questo modo il richiedente giunge in Europa solamente se ha ottenuto la protezione internazionale. In passato, vari Stati (Svizzera, Spagna) prevedevano questa opportunità, ma poi l’hanno ritirata perché erano gli unici a offrirla e questo accentrava tutte le richieste su di loro. Recentemente la Svizzera ha detto di essere disposta a riaprire tale possibilità, qualora sia condivisa con altri consolati europei. Infine, si noti che modalità come queste garantiscono maggior sicurezza e un controllo reale su chi entra in Europa».

 - Come si pone l’Agenda Europea sull’immigrazione rispetto a queste cinque modalità?

«Prevedeva, per la fine 2015, un programma sperimentale di reinsediamento in Niger, che ad oggi non è stato realizzato. Invece, il reinsediamento deciso a ottobre attraverso gli hotspot riguarda solo i profughi già sbarcati in Grecia e in Italia, non incidendo quindi sulle morti nel Mediterraneo e sugli affari dei trafficanti. Tuttavia è un miglioramento della situazione, pur avendo due grossi limiti: non tiene conto dei legami con parenti o conoscenti per decidere in quale Paese reinsediare il profugo e considera solamente eritrei, siriani, iracheni e centrafricani. A parte i primi, non sono le nazionalità principali di chi arriva in Italia. In ogni caso, anche questo programma fatica a essere messo in pratica: riguarda 160 mila profughi in due anni, ma oggi sono stati reinsediate solo 350 persone tra Grecia e Italia».


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