Era
partita a gennaio, senza immaginare a cosa andava incontro: Stefania
Figini, 46 anni, di Desio (provincia di Monza e Brianza) è
missionaria laica in Repubblica Centrafricana dal 1995. Dopo undici
anni di presenza stabile, ora vive in Italia e trascorre ogni anno
alcuni mesi a Bwabuziki, un piccolo villaggio della diocesi di Bouar,
dove svolge attività di sviluppo rurale e pastorale in
collaborazione con la parrocchia locale, sostenuta dall'associazione
Talità Kum onlus.
Era
tornata in Centrafrica con la madre Ardelia, che la accompagna da
sempre, per seguire i progetti costruiti negli anni: la scuola
materna Ss. Anna e Gioacchino, il laboratorio di pelletteria gestito
da diversamente abili, il laboratorio di taglio e cucito per donne,
l'assistenza sociosanitaria pre e post parto nel centro sanitario di
Yenga. Erano pronte a far fronte alle mille difficoltà di quella
terra poverissima. Ma mai si sarebbero aspettate di trovarsi nel
mezzo di un colpo di Stato.
«Era
il 23 marzo»,
ricorda Stefania. «Eravamo
uscite per andare in una missione, ma quando arrivammo, la trovammo
deserta: “Cosa fate in giro? Non avete saputo? I ribelli stanno
prendendo Bangui!”». La capitale era caduta, il presidente in
fuga, la coalizione Séléka aveva conquistato il potere quasi senza
resistenza.
«La nostra bianca non ha paura di niente!»
«C'erano
militari ovunque, non si capiva se governativi in fuga o ribelli che
avanzavano. Abbiamo trascorso due settimane con la tensione a mille,
le comunicazioni quasi assenti, i cellulari senza campo. Era la
Settimana Santa, abbiamo tenuto aperta la scuola materna per
sottrarre i bambini alla tensione. Ma quando giocavamo al gioco del
silenzio, capivano che stava accadendo qualcosa...».
Un
giorno arrivano dei soldati governativi in fuga: uno ha la moto in
panne e cerca un meccanico. Vede Stefania e domanda: «Ma quella
bianca non ha paura di star qui in questo momento?». «La nostra
bianca non ha paura di niente!», risponde fiero il meccanico, che
riassume così chi è Stefania: indomita, coerente, ma soprattutto
percepita dalla gente del villaggio come “nostra” e da loro
sempre protetta.
Il
volo di rientro è prenotato da tempo, la situazione pare un po' più
stabile e si decide di partire. Quasi 400 i chilometri per la
capitale. Stefania e Ardelia scelgono un autista loro amico fidato,
musulmano. Sì, perché i ribelli Séléka sono filo-islamici. E in
queste settimane si sono levate molte voci preoccupate che le
tensioni si polarizzino in uno scontro religioso. Anche la Conferenza
Episcopale Centrafricana ha sollevato la questione. Ma Stefania su
questo è categorica: «Non è un discorso religioso! Chi lo dice
getta benzina sul fuoco. È un problema politico. In gioco ci sono
enormi interessi e questi ribelli sono finanziati dall'esterno».
"Devo testimonare il disastro che si sta consumando nell'indifferenza generale"
Partono,
ma si imbattono in un convoglio di ribelli, armati fino ai denti e
con un'auto in panne. Le fermano. La situazione precipita. Basta
poco: una parola sbagliata, un soldato ubriaco o drogato... Con
sangue freddo, Stefania chiede del capo: si presenta un capitano che
parla quattro lingue ma non pare centrafricano, forse è ciadiano o
sudanese. Lei cerca di contrattare, punta sulla sua conoscenza del
sango (la lingua locale) e sul suo impegno per la popolazione.
Si
giunge a un compromesso: Stefania e gli altri traineranno l'auto in
panne fino alla base dei ribelli, a 130 km. Per sette ore restano in
balia dei miliziani. Giunti a destinazione, alcuni non vogliono
lasciarle andare. Ma interviene il capo: «Ho
dato la mia parola».
Una sventagliata di mitra trancia la catena che traina il pickup in
avaria. Ultimo attimo di terrore. Ed è finita. Una corsa fino a
Bangui e il rientro in Italia.
«Ora
so perché ci è capitato»,
riassume Stefania. «Perché
devo
raccontare qui in Italia quello che sta accadendo laggiù.
Testimonare il disastro che si sta consumando nell'indifferenza
generale. È il senso della mia scelta di vita: stare a fianco di
questa popolazione inerme e dar loro voce».