Dietro le sbarre italiane si continua a star male, con una sofferenza che sembra unire i detenuti alle stesse guardie. Lo dicono le cronache delle ultime settimane. In settembre, un poliziotto penitenziario del carcere di Saluzzo si è sparato prima di trascorrere una giornata di permesso al mare con la moglie e i due figli. A Poggioreale (Napoli), un sessantatreenne italiano si è impiccato nel bagno della cella; stessa scena successa al Bancali di Sassari negli stessi giorni. E il mese era iniziato con un trentottenne che a Pisa si era tolto la vita con un laccio rudimentale, a quattro mesi dalla fine della pena.
L’elenco purtroppo potrebbe continuare, arrivando a 30 detenuti dall’inizio dell’anno. Spesso si continua a considerare la chiave il simbolo della sicurezza, ma la realtà è diversa: più sono le mandate, più sale la recidiva. Il carcere “chiuso” diventa un “cimitero dei vivi”, ma soprattutto è patogeno e criminogeno: produce il 70% dei recidivi in circolazione. Quando invece si fanno scelte diverse, i risultati si vedono: a Bollate (Milano), modello per i progetti di recupero sociale, la recidiva scende al 20%.
Le magliette dei giocatori saranno griffate Made in Jail, prodotte a Rebibbia
«Recupero sociale significa istruzione e lavoro», spiega Susanna Marietti, coordinatrice di Antigone, associazione che si occupa di monitorare i diritti e le garanzie nel sistema penale. «Questo è un compito che devono assolvere le istituzioni; dopodiché, il volontariato e la società civile possono essere un aiuto importante».
Lo dice commentando l’ultima iniziativa lanciata dall’associazione, insieme a Progetto Diritti, realtà che si occupa di stranieri, e all’Università Roma Tre. «Scendiamo in campo», racconta, «con l’Atletico Diritti, una squadra di calcio composta da migranti, detenuti, ex detenuti e studenti».
Nella Capitale, in nome dell’integrazione, dell’antirazzismo e dei diritti per tutti, gli allenamenti sono iniziati e da ottobre l’Atletico parteciperà al campionato di terza categoria. Nel frattempo, la direzione di Rebibbia ha scelto i detenuti che potranno uscire tre volte a settimana per allenamenti e partita, mentre per gli immigrati si stanno cercando tutti i documenti necessari per tesserarli senza intoppi burocratici.
«Saremo una squadra a tutti gli effetti. Se il Brasile ha perso 7 a 1 nella semifinale dei mondiali organizzati a casa propria, noi potremo mai far di peggio? Certamente no», scherza Marietti.
Le magliette dei giocatori saranno griffate Made in Jail, prodotte a Rebibbia; le partite casalinghe saranno disputate nel campo più suggestivo di Roma, quello della Polisportiva Quadraro Cinecittà, che nasce all’ombra dell’acquedotto romano, e l’ha concesso gratuitamente. «Per tutti i giocatori», spiega Susanna Marietti, «sarà un modo per abbattere il muro che in carcere separa il mondo interno da quello esterno e per recuperare un valore dello sport veramente vincente, quello della coesione sociale».
Pare ricordarlo anche il logo, una “D” di diritti sovrastata dalla celebre banana di Andy Warhol, quasi un riferimento ironico alle frasi del neopresidente Figc Tavecchio contro i giocatori stranieri nei nostri campionati (chiamati «mangia banane»). «Se sarà necessario, ci debananizzeremo», ride la coordinatrice di Antigone. Atletico Diritti è una realtà totalmente autofinanziata. Tuttavia i costi sono tanti: l’iscrizione al campionato, il tesseramento dei giocatori, il magazzino, i palloni, le divise, i biglietti dell’autobus per le trasferte. Per questo, è stato lanciato un crowdfunding sul web all’indirizzo http://igg.me/at/atleticodiritti. «Serve l’aiuto di tutti per andare “diritti” alla vittoria», dicono da Antigone.