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giovedì 22 maggio 2025
 
 

In famiglia o al lavoro, quante donne costrette ad abortire

01/02/2014  La denuncia arriva dalla Comunità Papa Giovanni XXIII di don Oreste Benzi che dal '97 ha istituito un servizio ad hoc a sostegno della maternità difficile e da anni raccoglie le testimonianze di tante donne sottoposte a pressioni, minacce, ricatti e anche violenze perchè abortiscano. In barba alla legge 194 che dovrebbe tutelare la vita

  Qualche giorno fa Francesca (nome di fantasia), 23 anni, di Imola, è scappata dalla sua famiglia e ha bussato alla porta della Comunità Papa Giovanni XXIII. Un mese dopo la fine della relazione con il suo fidanzato, infatti, ha scoperto di essere incinta. I suoi vogliono a tutti i costi che abortisca, l’hanno minacciata di sbatterla fuori di casa se non lo farà, ma lei ha detto no. Ha chiesto aiuto ai volontari della Comunità di don Oreste Benzi per rifugiarsi nella loro casa di Imola e sfuggire alle pressioni della famiglia, almeno per i primi mesi di gravidanza. «È una ragazza molto combattiva», dice Andrea Mazzi, che fa parte del Servizio Maternità difficile e vita della Comunità e coordina la campagna contro l’istigazione all’aborto, «accoglierla qui da noi vuol dire né più né meno salvare una vita umana».

Visto da qui, il diritto alla vita non è il terreno di scontro tra opposte ideologie, tra favorevoli e contrari alla discussa legge 194. Né il vessillo ideologico innalzato da vetero femministe al grido di “Decido io”.
Visto da qui, il diritto alla vita è affare concreto, battaglia quotidiana, è aprire la porta a una ragazza come Francesca che ha il coraggio di portare avanti la sua gravidanza, pur tra tante difficoltà. O incoraggiare donne rimaste sole a non aver pura, offrendo loro un punto d’appoggio e di protezione.

Il Servizio Maternità Difficile e Vita nasce a Rimini nel 1997 con lo scopo di coordinare le iniziative della Comunità Papa Giovanni XXII a favore delle donne che non voglio abortire. Che poi sarebbe anche l’obiettivo della legge 194 del 1978. «Purtroppo non è così», spiega Mazzi, «raccogliamo quasi ogni giorno numerose testimonianze di donne che vengono istigate ad abortire da quegli operatori dei consultori pubblici che, in linea teorica, in base alla 194, dovrebbero invece aiutare la donna a portare avanti la gravidanza».

Da quest’avamposto si vede con più chiarezza, attraverso il contatto quotidiano con molte donne, che le spinte ad abortire sono molto forti: «Innanzitutto gli aiuti per la continuazione della gravidanza sono inesistenti», spiega Mazzi, «in diversi casi la donna si trova di fronte a difficoltà durissime. Basti pensare a chi ha un contratto di lavoro a tempo determinato: con la gravidanza perde il lavoro!».

Ma le pressioni, le istigazioni ci sono ovunque: in famiglia, sul posto di lavoro, in ospedale: «In famiglia», afferma ancora Mazzi, «la neomamma viene talvolta ricattata, addirittura picchiata dal compagno o marito con minacce del tipo: "Se non abortisci ti lascio", "non ti do più i soldi"). Se è minorenne o con ritardo mentale, di norma sono i genitori che decidono per lei l’aborto; ci sono donne scortate in ospedale e piantonate finché l’intervento non è stato eseguito. Anche sul luogo di lavoro la  neomamma è spinta dal datore di lavoro ad abortire col ricatto del licenziamento. Inoltre, se il medico che l’assiste, se solo ha il sospetto che il bimbo abbia una malformazione, si fa in quattro per consigliarla di "fare l’intervento". Se una mamma povera chiede aiuto alle istituzioni, può incappare in un assistente sociale che le suggerisce l’interruzione con la minaccia di sottrarle gli altri figli che ha già. Non parliamo delle ragazze schiavizzate dal racket della prostituzione: in questo caso è il magnaccia che decide per loro».

Ecco lo spettro inquietante dell’istigazione all’aborto. A volte, il dramma di queste donne sfocia in omicidi e finisce nelle pagine di cronaca, altre volte – la maggior parte – scivola nel silenzio sepolto da una coltre sottile di ipocrisia e ideologia.  
Nel triennio 2010-2012 la Comunità Giovanni XXIII ha seguito circa 681 donne e ha raccolto circa 76 testimonianze di donne che hanno manifestato forti pressioni per essere indotte ad abortire (circa il 30 per cento fra quelle incontrate nel primo trimestre di gravidanza) di cui 14 di costrette all'aborto.

«Tutto ciò accade», commenta Mazzi, «nonostante la legge 194 abbia come obiettivo primario la tutela della maternità e della vita umana fin dal suo concepimento e  consentendo l'aborto solo in caso di “serio pericolo della salute o della vita della gestante”. Nella pratica, invece, consente l'aborto su semplice richiesta della gestante dimostrandosi totalmente inadeguata a garantire in concreto non solo la tutela del nascituro ma anche quella del benessere della donna con la quale non viene quasi mai verificato se la sua richiesta sia libera da pressioni o condizionamenti».

È paradossale come nell’immaginario comune alla parola aborto venga accostata la parola “libertà”. La realtà, purtroppo, racconta una storia diversa. Per questo, a marzo, la Comunità di don Benzi presenterà al Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu un rapporto ad hoc dove sono stati raccolti numerosi dati e testimonianze sull'istigazione all'aborto. La Comunità Papa Giovanni XXIII, infatti, è una ONG accreditata presso il Consiglio Onu nell'ambito dell'UPR, la sessione dedicata alla valutazione del rispetto dei diritti umani nei vari Paesi.  

Non solo denuncia, però. Mazzi avanza anche delle proposte: «Perché», chiede, «non punire penalmente chi istiga all’aborto, compresi gli operatori dei consultori? Poi bisogna intervenire con aiuti concreti, non solo economici o materiali, per tutte quelle donne che chiedono aiuto».    

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