Nella fase iniziale dello sviluppo dell’epidemia di COVID-19 , che come sappiamo ha avuto l’epicentro in Cina nella città di Wuhan, l’India sembrava indifferente. A Mumbai, come in ogni altra città, i treni e i bus erano densi, i cinema e i mall affollati, gli aeroporti e i voli interni saturi di passeggeri, il traffico caotico le strade piene della varietà di venditori di qualsiasi cosa: fiori, street food, pan e tanto altro. Fino alla metà di marzo l’India ha ignorato quanto stava accadendo in Cina, in Iran e in Italia. Il Paese sembrava volesse esorcizzare l’esistenza di un virus tanto insidioso e letale per molti. Lavorando in India da oltre 12 anni si insinuava il dubbio che le dichiarazioni ufficiali e i dati relativi al contagio non corrispondessero alla realtà.
Malgrado le tensioni politiche tra i Governi dei due giganti asiatici, gli uomini d’affari cinesi e indiani continuavano i loro incontri, scambi commerciali e investimenti. Sul piano puramente statistico non vi era motivo per pensare che l’India potesse essere immune dal contagio.
Ma allora perché le cifre erano così basse? Volontà politica di manipolazione politiche? Non si poteva escludere ma secondo me la ragione era più semplice: l’assenza di misurazioni su larga scala del fenomeno. La rilevazione del COVID-19 richiede quattro componenti: tamponi, reagenti, microscopi e persone competenti. L’assenza di un solo componente impedisce controlli efficaci. In India i tamponi (anche a basso costo) non sono un problema, i reagenti possono esserlo ma il punto debole in India era ed è tuttora la combinazione “microscopi + specialisti”.
Inoltre bisogna considerare che un paese con un miliardo a 400 milioni di persone dispone negli ospedali pubblici di circa 750.000 posti letto di cui 40.000 destinati a terapia intensiva e solo 20.000 dotati di ventilatori (senza ventilatori non si può parlare di terapia intensiva) con condizioni igienico-sanitarie non proprio pari agli standard internazionali.
Mentre in Italia esplodeva l’epidemia, il sito del Ministero della Salute Indiano pubblicava numeri molto bassi di persone contagiate (nell’ordine del centinaio) e di morti (nell’ordine della decina). Un dato era spia di un fenomeno probabilmente sottostimato: la distribuzione dei casi non era concentrata in uno o pochi Stati (per giorni in Italia sembrava che il contagio fosse limitato nella microzona del basso lodigiano) ma era diffusa in tutti gli Stati e distretti del paese. Dall’Himalaya al Kerala, da Mumbai a Kolkata fino agli stati ad est del Bangladesh vi erano pochi casi ma distribuiti in ogni distretto dell’India. Come era possibile che una città come Mumbai (22 milioni di abitanti) avesse un numero di casi simile a quello di qualche città secondaria o addirittura un villaggio nello Stato del Maharastra (le cui dimensioni sono più grandi dell’Italia).
Del resto, in assenza di capacità diagnostica, non era difficile pensare che tante morti con sintomatologia da COVID-19 fossero derubricate a normali decessi dovuti a polmonite.
Infine, non bisogna dimenticare che nella cultura induista la morte è un semplice trapasso verso una nuova vita e quindi è vissuta in modo molto meno drammatico soprattutto quando colpisce gli anziani.
La realtà sembrava molto diversa dai dati ufficiali. Nel mese di marzo cominciarono a circolare informazioni da fonti autorevoli (virologi Indiani nel Regno Unito o negli Stati Uniti, dirigenti del Ministero della Salute) che indicavano numeri molto diversi e stimavano il numero di contagiati compreso da 300 e 500 milioni (oggi, 15 aprile, il Ministero della Salute indica 9.756 casi di contagio e 377 morti).
La discrepanza tra stime e dati ufficiali è troppo grande.
Quando colsi questo dato cominciai a pormi nuove domande: cosa sarebbe potuto succedere se l’epidemia fosse esplosa in India con virulenza analoga a quella che abbiamo visto in Cina, Iran e Italia (in quella fase) e poi in ogni altro Paese europeo e persino gli Stati Uniti?
La risposta si è presentata nella realtà prima ancora che riuscissi a formulare un pensiero compiuto.
In pochi giorni (tra il 16 e il 23 marzo) l’India è passata dall’assoluta normalità al lock-down più rigoroso.
La politica indiana ha sempre dimostrato capacità di prendere decisioni drastiche e muscolari in poco tempo come, per esempio, nel caso della demonetizzazione ha spesso ha mostrato che “rapidità decisionale” non significa “razionalità della scelta”. Spesso le decisioni prendono forma improvvisa, per effetto di pulsioni non del tutto razionali.
Ma in questo caso lo scenario era diverso. L’escalation del lock-down è stata troppo rapida, la dimensione troppo grande (tutti gli Stati dell’India coinvolti nello stesso momento), alcuni provvedimenti legislativi presi d’urgenza (come il decreto che blocca le imprese non solo a effettuare qualsiasi licenziamento ma anche a rinegoziare temporaneamente gli stipendi col personale) era il segnale che qualcosa di più grande stava per accadere.
Cosa poteva spiegare tanta rapidità? Perché il governo indiano prendeva misure così drastiche che avrebbero compromesso non solo l’economia locale ma anche i tantissimi investimenti stranieri di cui il Paese ha tremendo bisogno per continuare il sentiero di sviluppo?
Le ipotesi sono tante. La mia idea personale è più semplice: il governo ha effettuato controlli su campioni più numerosi di popolazione e ha rilevato numeri di diffusione molto diversi da quelli noti e comunicati ma soprattutto una distribuzione in ogni parte del Paese. Difficile spiegare altrimenti un lock-down esteso contemporaneamente a tutti gli Stati.
Quali possono essere le conseguenze?
In India rischiano di intrecciarsi due grandi problemi: l’emergenza sanitaria e l’emergenza economica.
Sul piano sanitario la diffusione dell’epidemia potrebbe avere effetti catastrofici. Se per esempio consideriamo una stima di 200 milioni di persone contagiate con un tasso di ricovero dello 0,5% ci sarebbe un fabbisogno di un milione di posti letto (contro i soli 750.000 disponibili). Lascio intuire il fabbisogno di posti letto per terapia intensiva dotati di ventilatori e di assicurare condizioni igienico sanitarie adeguate.
Cosa potrebbe succedere se il contagio si diffondesse in uno slum come Darawi a Mumbai (il più grande dell’Asia) in cui oltre 1 milione e mezzo di abitanti vive in una superficie di pochi chilometri quadrati?
Io ho l’impressione che le conseguenze del lock-down possano essere ancora più devastanti. In India oltre 400 milioni di persone vivono con uno stipendio pagato a giornata e non hanno alcuna tutela o ammortizzatore sociale. Il blocco di qualsiasi attività produttiva e commerciale ha improvvisamente tolto ogni fonte di entrata ad autisti di riksia e taxi, operai nei cantieri, venditori di ogni tipo di street food, piccoli commercianti, piccole imprese. Poiché gli strati più deboli della popolazione non hanno certo alle spalle il risparmio privato o la casa di proprietà è facile intuire che non potranno reggere a lungo.
Nei giorni successivi al lock-down si è registrato un esodo biblico dalle città. Milioni di persone senza alcuna fonte di reddito ha lasciato un presente precario per tornare ai villaggi di origine. Se il contagio fosse diffuso come sembra, questo esodo potrebbe aver contribuito a diffonderlo in tutta l’India soprattutto in quei villaggi in cui l’assistenza sanitaria è ancora più debole.
La dimensione dell’esodo dalle città ha messo a nudo, in modo plastico, l’insostenibilità di un modello di sviluppo rapido caratterizzato da una forte urbanizzazione, l’assenza di tutele sociali per troppi lavoratori e lo squilibrio della distribuzione raccontato con il supporto di tanti dati in un volume del grande socio-economista Indiano Amartya “An uncertainty glory”.
Ma come stanno reagendo gli Indiani. In genere mostrano grande fiducia su un superamento rapido della crisi. Per tante persone è diffusa la credenza che il COVID-19 colpirà meno perché soffre le alte temperature e l’India sta entrando nella stagione più calda dell’anno con temperature medie superiori a 40° fino al periodo del monsone (ma l’OMS ha messo in dubbio questa correlazione).
Altri evidenziano che l’età media dell’India è molto bassa, 27 anni su 1 miliardo e 400 milioni di abitanti (In Italia l’età media è di 45 anni su poco più di 60 milioni di abitanti). Il tasso di letalità potrebbe essere più basso.
Fino a due giorni orsono molti imprenditori indiani mostravano grande fiducia nella riapertura il 14 Maggio ma proprio oggi (15 Aprile) il Governo ha emanato un decreto che rinvia il periodo di Lock-down al 4 Maggio e non esclude ulteriori estensioni.
Alcune ricerche e dati basati su modelli statistici mettono in evidenza che il picco è atteso intorno a metà giugno e la riapertura non comincerà in Luglio (ma in pieno monsone quali saranno le condizioni generali di città come Mumbai, Kolkata o Chennai?).
Nel caleidoscopio indiano non è facile fare previsioni.
Coloro i quali dipingono scenari apocalittici sono almeno pari a coloro i quali pensano che in poche settimane tutto tornerà alla normalità. Io stesso seguo l’evoluzione dei fatti e i numeri con grande attenzione e soltanto verso la fine di aprile si potrà delineare scenari più robusti.
Gli Indiani hanno sempre mostrato una straordinaria capacità di resilienza alle grandi catastrofi naturali e sarà interessante osservare la capacità di reazione a questa sfida che sta mettendo in ginocchio ogni parte del mondo.
Quale che sia l’evoluzione mi auguro che questa crisi apra una fase di riflessione sul modello di sviluppo economico Indiano nella direzione di una maggiore attenzione alla sostenibilità, alla responsabilità sociale e all’uomo.