«Oggi in Italia l’assistenza sanitaria è un diritto che dipende dalla Regione in cui si ha la fortuna di nascere e di vivere»: il professor Mario De Curtis, ordinario di Pediatria a La Sapienza di Roma e direttore di neonatologia, patologia e terapia intensiva neonatale al Policlinico Umberto I, non usa mezzi termini. Tra i promotori del convegno “Bambini e disuguaglianze”, che si tiene il 22 febbraio a Roma, alla luce delle ultime indagini statistiche esamina la condizione del nostro Paese dal punto di vista dei bambini. E del futuro della nostra società. E non sono buone notizie.
Uno degli indici dello sviluppo sociale di un Paese è quello relativo alla mortalità infantile. E l’Italia ha dei tassi bassissimi. Eppure nascere in una determinata regione può fare la differenza. Perché?
«È vero, l’Italia è uno dei Paesi del mondo in cui la mortalità neonatale e infantile sono tra le più basse, più di Francia, Germania e Regno Unito, in ambito europeo tassi migliori si hanno soltanto nel nord Europa. Inoltre negli ultimi decenni, grazie al miglioramento delle condizioni di vita e delle conoscenze mediche, dello sviluppo della neonatologia e terapia intensiva neonatale, si è verificata una significativa diminuzione della mortalità neonatale e infantile. Ma questa diminuzione non è avvenuta in maniera omogenea in tutte le regioni italiane. La mortalità più bassa si ha nel Nord est, poi nel Nord ovest, poi nel Centro, Sud e isole. Insomma, un bambino che nasce nelle regioni meridionali ha il rischio del 36 per cento in più di morire rispetto a un bambino nato nel Nord. Le regioni in cui la mortalità è maggiore sono Calabria, Sicilia, Campania, le più virtuose il Veneto, il Piemonte e l’Emilia Romagna».
Perché la mortalità infantile è più elevata nel Mezzogiorno?
«È un problema legato a fattori di tipo economico, sociale ma anche di organizzazione e qualità delle cure. Le persone che nascono in Campania hanno un’aspettativa di vita minore rispetto a quelle che nascono in Trentino. Inique differenze nel diritto alla salute riguardano tutte le età, ma una particolare attenzione va posta alla prima fase della vita, perché se alcune affezioni non vengono affrontate correttamente e per tempo possono compromettere tutto lo sviluppo. Un bambino che ha una depressione alla nascita se non viene opportunamente curato può presentare un’alterazione neurologica e una disabilità con un danno per la sua persona, per la sua famiglia e per tutta la società».
Ci dà qualche indicatore di una cattiva organizzazione delle cure neonatali?
«Per esempio la frequenza dei parti cesarei è considerata un indice della qualità delle cure. In Italia abbiamo un valore medio del 35 per cento, ma mentre in Trentino o Friuli abbiamo valori del 20-25 per cento, in linea con una media europea, esistono altre regioni dove è molto più alto, come il Molise, la Puglia e soprattutto la Campania, che raggiunge il 60 per cento. Il parto in Italia sia naturale che cesareo è una cosa sicura, ma il cesareo è un intervento chirurgico, che non è privo di rischi e deve essere eseguito solo se esiste una reale necessità».
Perché in certe regioni ci sono più cesarei?
«Il problema è duplice. Senza dubbio la medicina difensiva ha aumentato la frequenza dei tagli cesarei, ma c’è anche il problema dell’organizzazione delle cure perinatali, che nelle regioni meridionali dovrebbe essere decisamente migliorate. L’altro aspetto è che nelle regioni meridionali esistono delle piccole maternità che spesso sono sprovviste di attrezzature e personale idoneo ad affrontare situazioni di emergenza. Va detto con chiarezza: è estremamente importante che una donna con una gravidanza a rischio si ricoveri in un ospedale dove esiste anche un reparto di terapia intensiva neonatale. Ma qualsiasi struttura e qualsiasi maternità dovrebbe avere attrezzature e personale idoneo ad affrontare situazioni di emergenza in attesa di un trasferimento. In Italia, purtroppo, a causa della riforma dell’articolo quinto del 2001, abbiamo 20 servizi sanitari regionali che al meridione, in gran parte, sono stati commissariati. La proposta di legge dell’autonomia delle regioni a statuto ordinario ha il forte rischio di determinare una ulteriore separazione tra le regioni più ricche del Nord e quelle più povere del Sud. Con una compromissione ulteriore dell’assistenza sanitaria. Oggi in Italia l’assistenza sanitaria è un diritto che dipende dalla Regione in cui si ha la fortuna di nascere e vivere. Questo purtroppo è una condizione che riguarda tutte le età della vita e anche neonati e bambini».
Quali sono le categorie più svantaggiate?
«Mi sembra importante fare una premessa: in Italia, negli ultimi anni, abbiamo avuto una forte denatalità. Gli ultimi dati Istat dicono che nel 2018 ci sono stati 449mila nati, ben 128mila in meno rispetto a dieci anni fa. E meno della metà di quelli che erano nati negli anni ’60. Cioè abbiamo una denatalità che potrebbe compromettere lo sviluppo sociale, soprattutto quello previdenziale, dei prossimi anni. Hanno contribuito molto a ridurre la denatalità i nati di genitori stranieri. Gli stranieri in Italia sono l’8 per cento, ma contribuiscono al 15 per cento di tutti i nati italiani. Sono 68mila i nati da genitori entrambi stranieri, e 99mila solo da madre straniera. Questi bambini, sempre secondo Istat, sono a maggior rischio di morte, sia nel periodo neonatale che nel primo anno di vita, rispetto ai figli di genitori nati italiani».
Quali sono i motivi di questo rischio maggiore?
«La scarsa assistenza durante la gravidanza, uno svantaggio sociale economico, un basso reddito familiare. Inoltre spesso le madri sono minorenni o ragazze madri, fanno lavori particolarmente pesanti, hanno un’alimentazione incongrua, vivono in ambienti dal punto di vista igienico molto carenti, e spesso le cure ostetriche sono tardive e inadeguate».
Vediamo scendere dai barconi che approdano sulle nostre coste donne in avanzato stato di gravidanza, spesso frutto di stupri subiti durante il lungo esodo. Questi bambini che tipo di problemi avranno?
«Si tratta di una minoranza, il problema coinvolge soprattutto chi vive in Italia. Comunque senza dubbi molti bambini di queste donne hanno un ritardo di crescita intrauterino. In generale i bambini di donne straniere rispetto a quelli nati da donne italiane hanno un maggiore rischio di nascere prematuri e con un peso alla nascita molto basso. Va ricordato che la legge italiana garantisce i diritti delle donne durante la gravidanza, le quali possono andare al pronto soccorso anche se si trovano in una condizione di irregolarità giuridica, ma esistono dei problemi legati alla mancanza di informazioni, al timore verso le autorità locali e anche a differenze culturali. E il decreto sicurezza potrebbe ulteriormente peggiorare questa situazione dal momento che vengono meno alcuni interventi di protezione umanitaria verso gli immigrati e le loro famiglie».
Esistono altri tipi di disuguaglianze?
«Vorrei ricordare quelle relative alle cure palliative, cui si ricorre quando la malattia di base va incontro a un’evoluzione infausta, non risponde più ai trattamenti. Purtroppo anche i bambini possono avere malattie gravi, inguaribili, ma tutte le malattie, anche queste, sono curabili. L’anno scorso si è parlato molto di due bambini inglesi, Alfie Evans e Charlie Gard. Bambini come questi in Italia ce ne sono circa 30-35 mila e hanno necessità di cure palliative, eppure meno del 5 per cento dei bambini con malattia incurabile può accedervi, nonostante la legge del 2010 assicuri a tutti i cittadini l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore. Ma non ci sono strutture Hospice) in numero adeguato e un’organizzazione valida. E questo soprattutto, ancora una volta, nelle regioni meridionali».
L’aumento della povertà come influenza la crescita dei bambini?
«Mentre nel passato la nascita di un bambino era considerata motivo di potenziale arricchimento della famiglia, oggi l’arrivo di un bambino può far precipitare le famiglie più fragili in uno stato di povertà conclamata e aggravare le condizioni delle famiglie già povere e emarginate. L’Istat ha mostrato che sono particolarmente a rischio le famiglie con più bambini: circa il 20 per cento delle famiglie con tre figli si trova in una condizione di povertà, situazione particolarmente frequente nelle famiglie di immigrati. Nascere in una condizione di povertà è un significativo fattore di rischio per lo sviluppo infantile».
È diversa la povertà subita da un bambino rispetto a un adulto?
«È molto più grave, perché non si può più recuperare. Il bambino che vive in una condizione di povertà – malnutrizione, carenza di cure igieniche, scarsità di stimoli – ha maggiori difficoltà nello sviluppo affettivo, emotivo, linguistico, cognitivo».
Perché avete scelto proprio il tema “disuglianza e salute”?
«Il pediatra non deve solo curare i bambini, ma segnalare all’opinione pubblica le difficoltà e le criticità, che possono essere prevenute e corrette con un’adeguata politica sanitaria e sociale».
A suo parere quali politiche vanno messe in atto?
«La cosa più importante è dare un sostegno continuativo alle famiglie e contrastare la denatalità. Il che significa aiutare il lavoro dei genitori, permettere alle donne di conciliare lavoro e famiglia. Il problema non è tanto il bonus bebè ma il fatto che in Italia non si è fatta una politica per la famiglia. La Francia, solo per dare un’idea, ha un indice di fecondità, cioè un numero di bambini per donna (1.9), che è molto più elevato di quello italiano (1.32). Il problema è che in Italia non ci sono state e non ci sono valide e continuative politiche dirette al sostegno della maternità, della famiglia e dell’infanzia».