L’8 marzo è alle porte. La Festa della donna, quest’anno, non potrà essere celebrata senza il ricordo di una donna straordinaria che ha speso la vita per la vita, ed è morta per la dare la vita. Salome Karwah, la coraggiosa infermiera diventata il simbolo della lotta all’Ebola, è morta il 21 febbraio scorso a Monrovia in Liberia, uno dei tre Paesi dell’Africa occidentale dove nel 2014 era scoppiato con violenza inaudita il virus che causò una terribile epidemia con migliaia di vittime.
E’ scomparsa a 28 anni, a tre giorni dalla nascita del suo quarto figlio, pare per non essere stata soccorsa tempestivamente dai sanitari, che temevano di essere infettati. La giovane liberiana, infatti, secondo la denuncia del marito, a tre giorni dalle dimissioni dall’ospedale dove aveva partorito, aveva accusato un malore, ma medici e infermieri non l’avrebbero soccorsa con tempestività, lasciandola per ore in ambulanza. Salome era una sopravvissuta ad Ebola e i colleghi temevano ancora il contagio.
Effettivamente la donna aveva contratto il virus, prestando soccorso ai colpiti dalla malattia, nel periodo in cui l’epidemia mieteva più vittime, a fianco dei medici negli ospedali della capitale liberiana. Ma ne era anche uscita indenne, tant’è che i test di controllo effettuati di recente erano risultati tutti negativi. Era la prova vivente che si poteva scampare da Ebola, anche dopo averlo guardato in faccia. Anche dopo aver strappato dalle sue spire velenose tanti e tanti malati.
Per il suo coraggio e per la dedizione verso queste persone, Salomè nel 2014 era stata nominata “persona dell’anno” dalla rivista “Time” e il suo volto, sorridente aveva fatto il giro del mondo, come quella posa risoluta e forte nella quale era stata ritratta, in camice, per la copertina del giornale, con le braccia conserte, pronta a tornare tra i suoi pazienti, per prestar loro le cure più amorevoli. Era diventata il volto dolce e, assieme, eroico degli “Ebola Fighter”, lei, donna, africana, proveniente da uno dei Paesi più poveri dell’Africa a più alta mortalità per parto. E il destino ha voluto che di parto, lei che era sopravvissuta al virus, morisse.
Era solita dire: «Se un paziente non vuole mangiare, io lo incoraggio a mangiare. Se è debole e non riesce a lavarsi da solo, io lo aiuto a lavarsi. Aiuto i pazienti in tutto ciò che posso perché so che cosa vuol dire sperimentare l’Ebola, anch’io l’ho vissuta».
La testimonianza di Medici senza Frontiere, con cui a lavorato a fianco nei giorni più virulenti dell’epidemia, vale molto più di tanti commenti: «L’esperienza diretta della malattia ha mosso in Salome una grande empatia verso i pazienti dei quali si è presa molta cura. Tutti i membri dello staff che hanno lavorato con lei ricordano la sua forza e compassione, ma anche il suo sorriso. Ha dato un enorme contributo al lavoro di MSF nel momento del picco dell’epidemia a Monrovia. Salome è diventata anche il simbolo della lotta alla stigmatizzazione dei sopravvissuti all’Ebola, prendendo parte a molte interviste con media locali e internazionali. E’ stato davvero coraggioso da parte sua, ancor più in un paese nel bel mezzo di un’epidemia e molto spaventato dal virus».