Stefano Tilli
ll 12 settembre di quarantun anni fa Pietro Mennea, ribattezzato la Freccia del Sud (era nato a Barletta nel 1952), conseguiva uno dei record del mondo più longevi nella storia dell’atletica. Poiché era uno studente universitario (in tutta la sua vita conseguì ben 4 lauree), partecipò alle Universiadi di Città del Messico. Complice l’altitudine, ottenne sui 200 metri il tempo di 19”72. Ci vollero 17 anni prima che ai Giochi olimpici del 1996 lo statunitense Michael Johnson fermasse il cronometro sui 19”66. E ancora il risultato di Mennea rimane record europeo. La sua vita viene raccontata nel bel libro Pietro Mennea, più veloce del vento (Clichy) del giornalista Pippo Russo. Suo compagno di tante imprese nella staffetta 4 x 100 fu Stefano Tilli, 57 anni, con cui nel 1983 conquistò l’oro alla Coppa Europa di Londra, l’oro ai Giochi del Mediterraneo a Casablanca e l’argento ai Mondiali di Helsinki.
Che ricordo particolare ha di Pietro Mennea?
«A Helsinki eravamo compagni di stanza. Io ero il più giovane della squadra, l’ultimo arrivato. Pietro era un tipo molto meticoloso, lì faceva freddo e lui indossava la maglia di lana sotto la canottiera e ogni sera faceva il bucato e lo metteva a stendere in camera. Io per fargli una battuta gli dissi: “Che figura mi fai fare se porto una ragazza”. E lui rispose: “Dille che sono di tuo nonno!”. A dispetto della sua fama era un tipo molto spiritoso. Ho sempre notato una gran differenza tra la sua immagine pubblica e quella privata. Forse perché quando lo intervistavano era sempre a ridosso di una gara, carico di tensione e adrenalina e sembrava ombroso e in lotta con il mondo, ma in realtà era un buontempone, che amava ridere e scherzare con gli amici. Vi racconto un episodio: eravamo in Sardegna e camminavamo sul lungomare quando una coppia di amici lo fermò chiedendogli se era proprio Mennea e lui rispose che in realtà era solo uno che gli assomigliava molto. Rimanemmo lì a chiacchierare per dieci minuti poi al momento di salutarli disse loro: “Piacere, sono Pietro Mennea”. A quel punto non sapevano se stesse scherzando e credo che siano ancora lì che si chiedono quale fosse la verità».
Che cosa aveva Mennea in più degli altri?
«C’erano fattori di ordine caratteriale e fisico. Aveva un’estrema abnegazione nell’allenamento, dava il massimo, tanto da vivere come una specie di eremita a Formia. La mattina in palestra, il pomeriggio in pista e la sera fisioterapia. Fisicamente aveva una grande resistenza ai carichi di lavoro e un fisico solido, tanto che in carriera si è infortunato pochissime volte. Visto che io l’ho vissuto come un amico ho difficoltà a mitizzarlo, come fosse un essere sovrannaturale. Ma erano anche altre epoche, lui poteva permettersi l’isolamento, oggi gli atleti sono dati subito in pasto ai social».
Che cosa ha rappresentato per lei?
«Si può dire che sia stato il primo ispiratore della mia carriera. Nel 1980 avevo 18 anni e giocavo a calcio, non ero mai sceso su una pista di atletica ma non mi sarei perso per nulla al mondo le gare di Mennea. E vederlo trionfare alle Olimpiadi di Mosca, con quella sua rimonta straordinaria, è stata la molla che mi ha fatto decidere di provare con la corsa. Mi ero reso conto sui campi da calcio che ero particolarmente veloce, ero la dannazione dei difensori. Sono andato subito forte e dopo tre anni sono stato convocato in Nazionale».
Com’è stato il primo incontro con Mennea?
«Ero a Formia e c’era lui, il mio mito: abbiamo fatto delle ripetute insieme e poi, quando mi sono messo a correre, mi sembrava di volare tanta era la mia beatitudine; anche ora che lo racconto mi viene la pelle d’oca».
Voi avete corso insieme molte gare, in un momento d’oro della staffetta italiana...
«Eravamo i più forti, è vero. Ai mondiali di Helsinki, dove vincemmo l’argento, gli Stati Uniti per batterci hanno dovuto fare il record del mondo. Eravamo quattro talenti forti, cristallini, allenati dal grande Carlo Vittori, che ci aveva addestrato alla tecnica detta dell’appuntamento per il passaggio del testimone: riuscivamo a centrare la mano del compagno mentre già era partito per la corsa, guadagnando centesimi preziosi. C’ero io, che in genere partivo per primo, campione europeo dei 60 metri, Simionato e Pavoni, vicecampione d’Europa, e infine Mennea».
Che ricordo ha delle Olimpiadi di Los Angeles 1984?
«Ancora mi rammarico per quel quarto posto, perché il bronzo andò ai canadesi e Ben Johnson fu trovato positivo al doping. In seguito, un tribunale riconobbe che anche gli altri tre si erano dopati, avrebbero dovuto annullare la loro medaglia e attribuirla a noi».
Cosa manca all’atletica italiana per produrre di nuovo grandi campioni?
«Abbiamo visto come il doping sia molto diffuso, come ci insegna la questione che ha visto implicata la Federazione russa. Invece in Italia i controlli sono fatti seriamente. Poi una volta ogni settore era gestito come un piccolo team, con le sue gure di riferimento, come massaggiatore, fisioterapista, nutrizionista. Ora gli atleti hanno solo l’allenatore come riferimento, non si pratica un serio regime nutrizionale, ci si infortuna spesso, perdendo tempo prezioso lontano dalle piste».
Lo scorso anno Filippo Tortu ha migliorato il record italiano sui 100 metri che Mennea aveva stabilito a Città del Messico. Può considerarsi il suo erede?
«Nessuno ha mai corso forte come lui, ci aspettiamo grandi cose».
Lei è rimasto legato all’atletica dopo il ritiro dalle gare?
«Non si è mai esaurita la mia passione per l’atletica e dal 2007 lavoro come commentatore tecnico per Rai sport».