La strada per la capitale, Juba, durante la stagione delle piogge.
«Siamo profondamente sconvolti e rattristati dalle notizie relative all'uccisione, mutilazioni, stupri e rapimenti di bambini nello Stato dello Unity, nelle ultime settimane», dicono da Save the Children, organizzazione che dal 1919 opera nella tutela dei diritti dei bambini.
Unity, Jongley e Alto Nilo sono gli Stati del Sud Sudan dove vi sono i combattimenti più virulenti tra esercito del presidente salva Kiir e miliziani del suo ex vice Riak Machar, i due uomini forti del giovane Paese africano.
«Siamo particolarmente turbati», continuano i responsabili della Ong, «dal reclutamento in corso di bambini in questi gruppi armati, e dalle continue notizie di stupri di bambini da parte di gruppi armati. Questi atti costituiscono gravi violazioni contro i bambini ai sensi della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu, e dei principi sanciti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del Fanciullo, ratificata di recente dallo stesso Sud Sudan».
Tutto questo nonostante il governo del presidente Kiir nel 2009 abbia sottoscritto un Piano d'Azione con le Nazioni Unite per porre fine all'arruolamento e all'utilizzo dei bambini nelle azioni militari e nei conflitti. Da allora, con la mediazione dell'Unicef si è riusciti a far rilasciare circa 280 minori, tra gli 11 e i 17 anni, arruolati a forza come miliziani dai ribelli del Cobra, fazione militare dell'Esercito democratico del Sud Sudan.
Ma la strada è ancora lunga ‒ secondo l'Onu, sarebbero almeno 12 mila i piccoli soldati ‒ e di certo non aiuta questa ulteriore guerra. I combattimenti più pesanti tra i governativi, fedeli a Salva Kiir, e i ribelli di Machar, sono concentrati negli “Stati petroliferi” Unity, Alto Nilo e Jongley.
L'ospedale di Yrol, dove opera il Cuamm-Medici con l'Africa di Padova.
L'attività di assistenza medica e sanitaria è frenetica
La pesante situazione di instabilità sta costringendo anche le organizzazioni internazionali ad andarsene, evacuando gli ospedali nelle zone più a rischio, come quello di Leer, nello Stato dello Unity, gestito da Medici senza Frontiere, e lasciando così circa 200 mila persone senza assistenza medica.
I combattimenti, scoppiati il 9 maggio scorso, hanno raso al suolo la città, dalla quale anche i Comboniani, che lì hanno una missione, sono dovuti scappare. Msf ha dovuto sospendere anche l'attività di diverse cliniche mobili che servivano centinaia di persone al giorno, nell'area di Bentiu, capitale dello Unity State. Continua invece ad operare nell'ospedale all'interno dei campi della “Protezione dei Civili” (gestiti dalle Nazioni Unite), che in poco tempo si è visto arrivare più di 11 mila persone, la maggior parte donne e bambini.
L'attività è frenetica: circa 150 casi solo nel mese di aprile, connessi alle violenze. Il sovraffollamento, aggravato dai continui arrivi, è motivo di grande preoccupazione. Msf resta anche nell'Alto Nilo, dove fornisce assistenza alle persone ferite nei combattimenti a Melut, città situata sulla riva orientale del Nilo Bianco, via di comunicazione principale. L'insicurezza impedisce l'atterraggio degli aerei, pertanto non è più possibile far arrivare per via aerea forniture mediche e personale.
Una famiglia sud sudanese in un "cattle camp", i campi nei quali allevatori e bestiame vivono quasi in simbiosi, secondo una millenaria tradizione.
La nuova escalation di violenza rischia di compromettere quanto fatto dalle organizzazioni umanitarie
«L'intensificarsi degli scontri, unito alla morte, la scorsa settimana, in circostanze poco chiare del Commissioner locale (la principale autorità di riferimento della contea), di ritorno dal fronte, ha fatto sì che Cuamm - Medici con l'Africa, in accordo con le autorità locali, decidesse lo spostamento del proprio personale internazionale, da Maper a Rumbek, in attesa dell'evolversi della situazione», dice Chiara Scanagatta, coordinatrice della Ong padovana in Sud Sudan. «Da Rumbek (si trova nello Stato dei Laghi, al confine con le aree di elevata conflittualità, ndr) monitoriamo strettamente il lavoro delle strutture sul campo, che restano operative e che continuano a garantire assistenza ai feriti, attraverso il personale locale».
A Maper (contea di Rumbek nord) il Cuamm è presente dal 2013, con l'obiettivo di rivitalizzare il network composto da sette strutture sanitarie, cha da luglio 2014 avevano ricominciato a funzionare, offrendo servizi di base alla comunità. Tra queste, quella di Maper è la più organizzata, con servizi ambulatoriali e ricoveri, con attività di prevenzione, in particolare nei riguardi della malaria e delle infezioni respiratorie, con vaccinazioni e un'ambulanza a disposizione 24 ore su 24.
Ma questa nuova escalation di violenza rischia di compromettere quanto fatto. Sono invece tornati, dopo essere stati evacuati due volte nel corso del 2014, i gesuiti del Jesuit Refugee Service; stanno operando nel campo profughi di Maban, nell'Alto Nilo. Si tratta di una tendopoli che ospita 140 mila rifugiati, in fuga dalla regione del Nilo Azzurro, in Sudan, e 60 rientrati da differenti campi nell'Africa orientale.
A quattro anni dalla proclamazione dell'indipendenza, il Sud Sudan è allo sfascio. I combattenti non hanno alcun riguardo, né per i civili, né per le strutture, nonostante si siano intensificati gli appelli della Chiesa e delle Organizzazioni internazionali, affinché le parti in conflitto «permettano ai pazienti di accedere alle strutture sanitarie per ricevere cure mediche, indipendentemente dalla loro origine o etnia».
Msf aveva denunciato l'uccisione di 14 pazienti ricoverati nell'ospedale di Malakal, capitale dello stato dell'Alto Nilo, oggi completamente isolata. Così come la città di Phon El-Zeraf (Stato di Jongley), dove negli ultimi mesi si è concentrata la maggior parte dei combattimenti. Msf è riuscita ad entrare per un sopralluogo: case ed edifici scolastici sono rasi al suolo, l'ospedale, che rappresentava una delle principali strutture sanitarie nella parte settentrionale dello stato, è stato demolito. Anche Human Rights Watch ha denunciato violenze commesse da entrambe le parti, che potrebbero essere sfociate in “crimini di guerra”.