Le grandi storie di cronaca nera ci appassionano e la giustizia in democrazia non può che essere un fatto pubblico,
ma il modo con cui lo diventa a volte distorce la percezione che ne
abbiamo. Per i salotti Tv trasformati in surrogati del tribunale Glauco Giostra,
professore ordinario di Procedura penale all'Università La Sapienza di
Roma, attualmente membro laico, cioè non magistrato, del Consiglio
superiore della magistratura, ha coniato l'espressione "processo
parallelo". Gli abbiamo chiesto di aiutarci a capirne qualcosa di più.
Professor Giostra, perché in uno Stato democratico, è così
importante che i cittadini siano correttamente informati in materia di
giustizia?
«Ogni collettività democraticamente organizzata ha vitale bisogno di
credere nella sua giustizia, per evitare che la risoluzione dei
conflitti venga affidata ad altri strumenti, socialmente dirompenti (la
vendetta, i rapporti di forza, il dispotismo politico; i poteri
criminali). Si può arrivare a dire che per la tenuta sociale di un Paese
la fiducia dei consociati nella giustizia è almeno altrettanto
importante del modo stesso in cui viene effettivamente amministrata. La
funzione di “collante” sociale della giurisdizione poggia su una
circolarità virtuosa, che in termini elementari potrebbe essere così
riassunta: il potere legislativo, espressione della collettività - fissa
le regole della convivenza e il procedimento per accertarne la
violazione; un organo “terzo”, a ciò preventivamente deputato per legge,
applica le norme nel caso concreto; la collettività controlla il modo
in cui si amministra giustizia in suo nome e lo valuta: se
insoddisfatta, cambia – per il tramite dei suoi rappresentanti politici –
le regole che puniscono i comportamenti di intollerabile disvalore
sociale o il procedimento per accertarne la commissione. Si riattiva
così il moto circolare che esprime la vitalità democratica e civile di
un Paese. Ciò postula naturalmente che la collettività possa conoscere
il modo in cui viene resa giustizia in suo nome. L’informazione,
soprattutto l’informazione sul processo penale ha quindi un ruolo
fondamentale e insostituibile in una società democratica. Purché,
s’intende, sia libera e pluralista».
Non è questo - par di capire - il tipo di
informazione per cui ha coniato l'espressione "processo parallelo",
evidenziandone i rischi: riusciamo a spiegare al lettore, digiuno di
legge ma telespettatore, che cosa intende con questa espressione?
«Il problema nasce quando dall'informazione sul processo si passa al
processo celebrato sui mezzi d'informazione. Da molto tempo ormai ha
preso piede, infatti, la tendenza a scimmiottare le forme e la
terminologia della giustizia ordinaria, per presentare all’opinione
pubblica la messa in scena di un processo “celebrato” in Tv : "un’aula
mediatica” che si costituisce come foro alternativo, come aula di
giustizia più “a portata di popolo”.In effetti, le suggestioni, le
possibilità di confusione e di commistione non sono poche, perché
entrambe queste attività – quella del giudice ordinario e quella
dell’operatore dell’informazione che allestisce la mimesi giudiziaria –
tendono al medesimo fine, cioè a ricostruire un accadimento passato
attraverso tracce, testimonianze, dichiarazioni, cose del presente.
Bisogna, però, cercare di tenere sempre ben distinti i due fenomeni,
perché sono sostanzialmente diversissimi: il processo giurisdizionale
ha un luogo deputato, il processo mediatico nessun luogo; l’uno ha un
itinerario scandito, l’altro nessun ordine; l’uno un tempo (finisce con
il giudicato ed è, di regola, irripetibile), l’altro nessun tempo; l’uno
è celebrato da un organo professionalmente attrezzato, l’altro può
essere “officiato” da chiunque».
Ci sono altre differenze, magari meno evidenti agli occhi dei non esperti, ma più profonde?
«Il processo giurisdizionale seleziona i dati più attendibili su cui
fondare la decisione; il processo mediatico raccoglie in modo bulimico
ogni conoscenza che arrivi ad un microfono o ad una telecamera: non ci
sono testi falsi, non ci sono domande suggestive, tutto può essere
utilizzato per maturare un convincimento. Il primo, è intessuto di
regole di esclusione per evitare che il giudice possa servirsi di
elementi suggestivi o inaffidabili; il secondo, invece, conosce
soltanto regole d’inclusione, è onnivoro. Nel primo ci sono criteri di
valutazione delle prove, frutto di secolare sedimentazione; nel secondo,
invece, valgono l’intuizione, il buon senso, l’emotività. Il processo
giurisdizionale obbedisce alla logica del probabile, il processo
mediatico a quella dell’apparenza. Nell’uno, la conoscenza è funzionale
all’esercizio del potere punitivo da parte dell’organo
costituzionalmente preposto; nell’altro, serve a propiziare, e spesso
indurre, un convincimento collettivo sulle responsabilità di alcuni
soggetti. Nel primo, il cittadino è consegnato al giudizio dei soggetti
deputati e preparati ad amministrare giustizia; nel secondo, alla
“folla” mediatica».
Come influisce, se influisce, il "processo parallelo" sulla nostra idea di giustizia?
«È innegabile che, nonostante le differenze siderali che intercorrono
tra il processo giudiziario e quello mediatico, non sempre l’utente
riesce a distinguere i due fenomeni, e a coglierne i diversi
significati, le diverse garanzie e il diverso grado di affidabilità. E
anzi, quando li pone a confronto, è la dimensione formale del processo
ordinario – e quindi del suo prodotto, la sentenza – a far risultare
meno comprensibile il "rito"e meno “giusto” il suo prodotto finale: la
sentenza. Si registra, cioè, una certa insofferenza per la giustizia
istituzionale, intessuta di regole e di limiti, a fronte del presunto
accesso diretto alla verità, che sembra assicurato dall’avvicinamento di
un microfono o di un obbiettivo alle fonti».
Vuol dire che in qualche modo la sentenza finisce per apparire
agli occhi dell'opinione pubblica "meno vera" rispetto al convincimento
che ciascuno ha maturato davanti alla Tv?
«Liberata da ogni forma del procedere, quella fornita dai mass media
sembra l’unica verità immediata. E con ciò si sconfina nell’ossimoro,
trattandosi invece della verità mediata per definizione e per
eccellenza. L’insidiosa idea, sottesa a questo "favore" per il processo
celebrato sui mezzi di informazione, è che il miglior giudice sia
l’opinione pubblica. Questa idea ne evoca un’altra: il sogno della
democrazia diretta, della gestione della cosa pubblica da parte
dei cittadini senza l’intermediazione della rappresentanza politica.
Sarebbe bene, al contrario, tenere ferma almeno una convinzione: il
processo reso nell’agorà mediatica, in cui il giudice è
l’opinione pubblica, ha a che fare con la giustizia quanto un potere
politico, che debba rispondere soltanto al popolo e ai sondaggi, senza
mediazioni e contrappesi istituzionali, ha a che fare con la democrazia:
cioè nulla, assolutamente nulla».
C'è il rischio che il "processo parallelo" intralci in qualche modo l'andamento del processo vero?
«La circostanza che la "vera" giustizia sia affidata a soggetti
professionalmente attrezzati diminuisce i rischi che sia influenzata da
quella, "taroccata", di tipo mediatico. Tuttavia, ci sono diversi rischi
di condizionamento che vanno considerati. Vi è anzittutto, il rischio
che le persone informate sui fatti riferiscano dinanzi alla folla
mediatica ciò che hanno già detto all'inquirente nella fase segreta
delle indagini, disvelando possibili orientamenti investigativi. Se
invece è il giornalista ad avvicinare per primo il testimone potendo
rivolgergli domande in forma suggestiva o subdola o "conducente",
potrebbe indurre risposte cui poi il teste rimane psicologicamente
vincolato anche dinanzi all'autorità giudiziaria; rischio che assume le
caratteristiche di una quasi-certezza quando si ha a che fare con
"soggetti deboli" (minori, psicolabili), i quali tendono ad elaborare la
risposta in base al modo con cui viene loro rivolta, per la prima
volta, la domanda».
Questo può valere per testimoni, imputati, persone informate sui fatti. Esiste anche il rischio di influenzare il giudizio?
«La precoce rappresentazione del processo mediatico altera, in
ogni caso, la regola fondamentale del processo vero è quella, cioè, per
cui la prova si forma davanti al giudice del dibattimento (quello che
pronuncia la sentenza), il quale non deve conoscere ciò che si è
acquisito durante le indagini. Càpita, invece, che il giudice apprenda
dalla Tv (per esempio dichiarazioni di testi) ciò che il sistema gli
impedisce di conoscere nel processo (per esempio quelle medesime
dichiarazioni acquisite dal Pm durante le indagini). Resta, infine,
pericolo che possa subire un condizionamento psicologico -pericolo assai
consistente nei giudizi di corte di assise, in cui siedono giudici
popolari- chi deve pronunciare una sentenza, che il giudizio mediatico e
quindi la collettività hanno già pronunciato. Queste le più rilevanti
ripercussioni sul singolo processo, ma, per quel moto circolare di cui
dicevo all'inizio (leggi - giustizia amministrata-informazione sulla
giustizia – modifica delle leggi), non è difficile cogliere più in
generale i rischi che una rappresentazione distorta della giustizia,
come quella offerta dal processo mediatico possa inquinare quel circuito
democratico inducendo a cambiare ciò che merita di essere conservato o,
talvolta, a conservare ciò che dovrebbe essere cambiato».