Anni di derisione, per una voce troppo squillante, per la passione per il canto, perché non gli interessa il calcio. Soffrendo in silenzio fino a quando in classe una professoressa sensibile di una scuola del Centro Italia non dà un tema dal titolo: “Inventa un racconto in cui sono presenti i seguenti personaggi: una vittima, un gruppo di ragazzi prepotenti, degli spettatori, un adulto. Soffermati sui dia-loghi e sugli stati d’animo dei diversi personaggi. Alla base del racconto può essere un fatto realmente accaduto o un episodio verosimile. Scegli un finale che preveda uno scioglimento positivo o una solu-zione negativa”. E Ivan, dodici anni, nome di fantasia, racconta tutta la sua vicenda, senza più nascondersi, in un fiume di parole liberatorie. E la professoressa lo invita a leggerlo ad alta voce in classe per dare il via a un processo di consapevolezza per quei compagni che, forse fino a quale momento, non avevano capito che le loro prese in giro potessero causare tanto dolore. Capita spesso nell’esperienza degli insegnanti. E alcune classi restano nella mente e nel cuore più di altre, alcuni sguardi di ragazzi non si dimenticano facilmente. Sono quelle in cui, tra le pieghe di occhi neri, compaiono le storie più terribili o più belle, più tristi o più poeticamente umane. Una volta a inizio anno sono arrivata in una nuova seconda subito dopo l’intervallo, in piedi alla lavagna un ragazzo smilzo col cancellino in mano era rivolto verso una scritta bianca molto evidente: Antoine (nome di fantasia, come tutti gli altri qui citati) frocio. Sono rimasta sulla porta ad osservare le dita sottili e ferme mentre cancel-lavano con calma e poi, tranquille, accompagnavano la voce: «Io sono così, chi mi accetta bene, altrimenti fa lo stesso». Antoine aveva una storia difficile alle spalle, tutta la forza di un padre vio-lento pesava sui suoi dodici anni. Movenze gentili, per alcuni di altre classi forse troppo. Erano stati loro a lasciare segni e scritte sulla lavagna. Ma le maestre delle elementari avevano fatto un ottimo lavoro sul ragazzo, la mia collega di prima media sulla classe intera: accoglienza iniziale, in-dividuazione di pregi e difetti, desideri e aspettative; uno spettacolo teatrale a fine anno, molto sport di squadra al doposcuola, tanti lavori di gruppo. Qui in aula nessuno lo prendeva in giro perché ognuno mostrava le sue diversità senza vergogna: Francesco era down, Ana da poco era arrivata in Italia, Giovanni aveva i capelli biondi, Marco non riusciva a stare fermo un minuto, Andrea era stato adottato due anni prima tolto a un padre in galera, Ivana suonava molto bene il pianoforte. Superata la soglia, si è spalancato un mondo.
Che cosa è chiamato a fare un insegnante contro il bullismo? A valorizzare le diversità come punti di forza. A far capire che non esistono due persone uguali e che ognuno deve dare agli altri, nel gruppo, il meglio di quello che ha e ricevere, da tutti, ciò che ciascuno può dare. Le strategie pos-sono essere molteplici: può funzionare anche far fare un tema sul bullismo, farlo leggere alla vittima davanti ai compagni, alcuni dei quali, alla fine, potrebbero chiedere scusa, come è successo ai compagni di Ivan. Serve il teatro, per far gettare la maschera alle persone e attribuire ruoli nuovi a chi non riesce ad averne di positivi. Servono la musica e un microfono per far e-sprimere al meglio chi non riesce a farlo in modo diverso. Serve incoraggiare chi non ce la fa, loda-re davanti a tutti chi sbaglia spesso quando invece fa una cosa giusta.
Non bisogna, invece, far finta di non vedere, anche se è comodo o se è complicato aguzzare la vi-sta dove tutto è ben nascosto dalla perfezione apparente e dal perbenismo. Allora bisogna rove-sciare i tavoli come Gesù nel tempio, dire con forza e rendere consapevoli anche i genitori, non aver paura di parlare quando magari ci si accorge che il più bravo della classe, figlio di famiglia bene, ha vessato per mesi la sua compagna di banco dalla pelle scura. La scuola deve sempre sforzarsi di andare oltre le apparenze, mai stancarsi di cercare, non turarsi il naso se c’è puzza di bruciato, andare a fondo. Con l’aiuto della storia, della letteratura, della filosofia ha l’obbligo di in-segnare il rispetto per sé e per gli altri, il coraggio di difendersi, l’autostima, la lotta all’omertà. E anche la debolezza che sta dietro a chi commette dei soprusi. Deve raccontare storie di persone vere, di lotte contro le ingiustizie, di Peppino Impastato, di Nelson Mandela, di Gandhi. Solo così, da grandi, i tacchi a spillo non sfileranno prepotenti sulle fragilità di un collega di lavoro.
Insomma, la scuola ha soprattutto un compito: insegnare agli uomini di domani l’umanità.