Papa Francesco:
Io le domande le ho, perché me le hanno inviate; ma voi ditele: io prendo nota delle cose che mi vengono perché voglio essere spontaneo nella risposta.
Daniele:
Santo Padre, sono Daniele, della diocesi di Mantova, e frequento l’anno propedeutico. All’inizio di questo nostro cammino seminaristico l’emozione che prevale in noi è la gioia; talvolta, dietro a questo entusiasmo, però, si nasconde il germe del dubbio e della fatica di seguire Gesù nella forma del sacerdote nella società contemporanea. Secondo la sua esperienza, in che modo noi seminaristi in cammino possiamo stare di fronte alla croce del dubbio?
Papa Francesco:
La croce del dubbio è una croce, ma feconda. Io non ho fiducia nelle persone che non dubitano mai. Il dubbio ci mette in crisi; il dubbio fa domandare a noi stessi: “Ma questo va bene o non va bene?”. Il dubbio è una ricchezza. Sto parlando del dubbio normale, non di quelle persone dubbiose che diventano scrupolose. No, questo non va. Ma il dubbio normale della personalità è una ricchezza, perché mi mette in crisi e mi fa domandare: questo pensiero viene da Dio o non viene da Dio? Questa cosa è positiva o non è positiva?
Tu hai detto “la croce del dubbio”, e io ti sto rispondendo riguardo al dubbio interiore, al dubbio che tu hai nel tuo orientamento spirituale. Forse tu stai parlando anche del dubbio culturale. Ma oggi il dubbio culturale non c’è tanto; forse ci sono più le affermazioni culturali contrarie, ognuno ha la propria e credo che all’umanità manchi un po’ la capacità di dubitare bene. Le grandi questioni…: pensa al dubbio sulla guerra, sulle migrazioni… Sono dubbi da prendere sul serio, perché altrimenti, in questi ambiti, il problema si risolve non con una ricerca interiore, ma secondo gli interessi di ogni nazione, di ogni società, di ogni popolo. Allora la mancanza di questi dubbi è brutta, perché fa essere sempre sicuri, senza porsi il problema... E’ una croce, il dubbio, ma è una croce che ti avvicina a Gesù e ti mette in crisi. E come hai detto tu – qui è scritto –: “quali azioni concrete possiamo mettere in pratica ogni giorno affinché la nostra quotidianità nutra questo cammino di affidamento?”. L’azione concreta è il dialogo con la persona che ti accompagna, il dialogo con il superiore, il dialogo con i compagni. Ma il dialogo aperto, il dialogo sincero, cose concrete. E soprattutto il dialogo con il Signore: “Signore, cosa vuoi dirmi con questo che mi fai sentire, con questa desolazione, con questo dubbio?...”. Prendete il dubbio come un invito a cercare la verità, a cercare l’incontro con Gesù Cristo: questo è il vero dubbio. Va bene?
Andrea:
Santità, io sono Andrea, della diocesi di Brescia, e sono in prima teologia. “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”. Santità, meditando sulle Sue parole con cui invita la Chiesa a essere in uscita, chiamata a svolgere dunque una nuova missione evangelizzatrice, ci siamo interrogati su alcune difficoltà di metterle in pratica. Di fronte a un mondo sempre più secolarizzato, nel quale Gesù è dimenticato e si fatica a trasmettere e quindi a comprendere la verità, di fronte alla debolezza della comunione e del senso di appartenenza e di identità nelle comunità cristiane, e di fronte a una scarsa partecipazione attiva alla liturgia, Le chiediamo con quali mezzi concreti sia possibile realizzare questa uscita a cui Lei ci chiama, e soprattutto come poter educare all’amore verso la Chiesa e per la Chiesa stessa.
Papa Francesco:
Grazie.
Chiesa in uscita, come Gesù ha voluto: “Andate, predicate il Vangelo, andate…”. Non “Chiesa in passeggiata”! Forse a volte in qualche piano pastorale facciamo confusione, che cosa sia andare in uscita, incontro alle persone, e che cosa sia fare una bella passeggiata e poi rimanere dove sto. Questo è importante: l’uscita non è un’avventura, è un mandato del Signore, è una vocazione, è un impegno. Tu parli di “questo mondo sempre più secolarizzato”. Ma io ti dico: quale mondo era più secolarizzato, il nostro o quello di Gesù? Quale mondo era più corrotto, il nostro o quello di Gesù? Lo stesso, ambedue. Sì, questo è secolarizzato con mezzi nuovi, moderni; ma l’altro era secolarizzato con i mezzi dell’epoca. Ma la corruzione era la stessa. Pensa alla corruzione degli abitanti di Atene, quando Paolo incominciò a parlare, quel discorso tanto ben fatto, che citava anche i loro poeti e alla fine, quando arrivò a un punto un po’ difficile [quello della risurrezione di Cristo], gli ateniesi dissero: “Sì, sì, vai pure…, domani ti sentiremo”. Succede anche oggi. Se vai a parlare di Gesù, in tanti posti, in tante città non ti ascoltano, non ti sentono. Era secolarizzato anche quel tempo. Pensa che a quell’epoca si facevano pure sacrifici umani… E anche oggi! In un altro modo, coi guanti bianchi, ma si fanno. La secolarizzazione è la stessa, più o meno, quella di Gesù e quella del nostro tempo. Invece, cosa dobbiamo fare, cose concrete, in questo mondo così secolarizzato? Le stesse cose concrete che ha fatto Gesù, che hanno fatto gli Apostoli. Come si costruisce la Chiesa? Prendete il Libro degli Atti degli Apostoli e lì c’è, la stessa cosa. Non c’è un altro metodo fondamentale diverso. Sì, ci sono sfumature, cambiamenti di epoca, ma l’essenziale è lo stesso che ha fatto Gesù.
E partendo da Gesù, cosa possiamo dire? Qual è il “nocciolo” proprio del messaggio di Gesù, dell’atteggiamento di Gesù davanti a quel mondo secolarizzato? Cosa faceva Gesù? Vicinanza. La vicinanza, l’incontro. Gesù incontrava il Padre nella preghiera e Gesù incontrava la gente. Incontrava anche i nemici, e a volte li ascoltava, spiegava loro, altre volte diceva loro cose che sembrano parolacce. Per esempio, leggi Matteo 23: non sono cose belle quelle che dice Gesù, lì. Perché era vicino e poteva dire le cose chiare, e ad alcuni non piacevano; e poi Lui ha dovuto pagare il prezzo di questo, sulla croce. Fare lo stesso di Gesù: vicinanza. Vicinanza a Dio, vicinanza alla gente, vicinanza al popolo di Dio.
Per questo, a me piace dire che voi dovete essere preti del popolo di Dio, cioè pastori di popoli, pastore della gente, e non “chierici di Stato”, perché Gesù bastonava forte il clericalismo del suo tempo: gli scribi, i farisei, i dottori della legge…, molto forte. E io vi dico che il clericalismo è una perversione della Chiesa. Quando si vede un giovane prete tutto centrato su sé stesso, che pensa a fare carriera, questo è più dalla parte dei farisei e sadducei che dalla parte di Gesù. Questa è la verità. Tu, quando vedi un prete che prega, che sta con i bambini, insegna la catechesi, che celebra la Messa con la sua comunità, che sa i nomi della gente perché si avvicina, alla fine della Messa va e saluta uno e l’altro: “Come stai? E la famiglia?...”. Questa è la vicinanza che aveva Gesù. Una volta ho sentito uno – di qua, uno che lavora in Vaticano… perché ce ne sono santi, qui dentro, ci sono santi! –, che mi diceva che era stato parroco un tempo e conosceva il nome di tutti, anche il nome dei cani! Questa è la vicinanza di un prete, un prete santo, ma con la santità ordinaria alla quale siamo chiamati tutti. Vicinanza al popolo e vicinanza a Dio nella preghiera. Il prete che si affanna troppo nell’organizzazione delle cose e perde un po’ questa vicinanza si allontana dall’ideale sacerdotale di Gesù.
Ma perché la vicinanza? Vorrei sottolineare un aspetto teologico della vicinanza - questo l’ho detto altre volte, forse l’avete sentito – Dio, nel Deuteronomio, dice al suo popolo: “Pensa: quale popolo ha i propri dèi così vicini come io sono vicino a te?”. E’ una scelta di Dio, la vicinanza al popolo. E Lui ha guidato il popolo come un pastore e lo ha guidato bene. Ma si vede che non era soddisfatto di questo, e Lui è venuto anche a farsi uno di noi: così vicino! È la condiscendenza di Dio che scende: quella che si chiama la synkatabasi. È l’atteggiamento fondamentale di Dio che si fa uomo per noi, si fa vicino. L’atteggiamento del prete è quello. Mi hanno regalato, padre Rupnik me l’ha regalata, un’icona della Madonna fatta da lui. La Madonna è al centro, ma, guardando bene, non è un’icona sulla Madonna: la Madonna è al centro, grande, e ha il piccolo Gesù qui [in grembo ma in piedi], un Gesù di quattro o cinque anni; le mani della Madonna sono così, come una scaletta, e Gesù scende, scende da noi... Nella mano destra tiene la pienezza della legge [un rotolo] e con la sinistra si aggrappa alla Madonna, per non cadere. Dio è un uomo che scende. È la Madonna della condiscendenza: il centro è Gesù. La Madonna fa da scala per questo mistero della vicinanza. Per questo la devozione alla Madonna aiuta a essere vicini a Gesù. C’è una preghiera che ci hanno insegnato, una giaculatoria, che fa tanto bene: “Madre, mettimi con tuo Figlio, fammi stare vicino a tuo Figlio”. E’ così, questo aiuta, perché chi è vicino a Gesù è vicino alla gente e fa quello che ha fatto Gesù.
Dunque, un mondo secolarizzato come al tempo di Gesù, questo è chiaro. L’atteggiamento più concreto di Gesù è l’incontro: incontrare la gente, la vicinanza. Vicinanza pastorale. E anche fra voi, vicinanza presbiterale... Se c’è tempo – non ricordo se c’è qualche domanda su questo – sul collegio presbiterale... Se non c’è, ricordatemelo.
Giovanni:
Santo Padre, sono Giovanni, vengo dalla diocesi di Bergamo e frequento la quarta teologia. Santità, alcuni tra noi seminaristi si stanno preparando a ricevere il ministero di lettori e accostandoci all’Esortazione apostolica post-sinodale Verbum Domini del Santo Padre Benedetto XVI, in particolare siamo stati provocati dal numero 82: «Il Sinodo ha raccomandato che i seminaristi siano aiutati concretamente a vedere la relazione tra lo studio biblico e il pregare con la Scrittura. Studiare le Scritture deve rendere più consapevoli del mistero della rivelazione divina e alimentare un atteggiamento di risposta orante al Signore che parla. Dall’altra parte, anche un’autentica vita di preghiera non potrà che far crescere nell’anima del candidato il desiderio di conoscere sempre di più il Dio che si è rivelato nella sua Parola come amore infinito». Vorremmo chiederLe la Sua esperienza personale negli anni di formazione, circa il rapporto tra studio e preghiera e tra studio e attività pastorale. Infine, vorremmo sapere quale brano della Scrittura, scoperto e gustato maggiormente grazie agli studi, L’ha accompagnata nella preghiera durante gli anni di formazione e L’accompagna tuttora.
Papa Francesco:
Grazie.
Parto dalla citazione di Papa Benedetto XVI. Lui tocca un punto che è molto importante: il rapporto tra preghiera e Scrittura. Una cosa che noi dobbiamo imparare a fare, e fare continuamente, è la lectio divina, cioè l’incontro con il Signore tramite la sua Parola: la lectio divina. Andare sempre alla Scrittura. La Parola di Dio che ci insegna a dialogare con la Scrittura: questo è la lectio divina. Stare davanti al Signore, alla sua presenza, con la Bibbia, e ascoltare. Questo si può fare anche a piccoli brani: io raccomando alla gente di portare il Vangelo in tasca – un Vangelo tascabile – o nella borsa, [e leggerlo] quando hanno tempo, due o tre cose… La familiarità con la Parola di Dio. Ci sono tanti autori spirituali che ci insegnano ad andare avanti nella vita spirituale e bisogna leggerli, non è vero?, ma la Parola di Dio, questa lectio divina, questa familiarità con la Parola di Dio – che non è una familiarità di citazioni, nel versetto tale, tale…, no, non quella – è la familiarità del cuore, è conoscere la Parola di Dio da dentro.
Poi, la domanda: “Vorremmo chiederLe la Sua esperienza personale negli anni di formazione, circa il rapporto tra studio e preghiera, tra studio e attività pastorale”, e manca un quarto elemento: sono quattro le colonne, i pilastri della formazione: studio, preghiera, attività pastorale e vita comunitaria, e per questo è importante il seminario. Una volta, un saggio vescovo ha detto: “Il peggiore seminario è meglio che nessun seminario”. Perché la vita comunitaria ci aiuta: è una propedeutica verso il collegio presbiterale. Il rapporto tra studio, preghiera, attività pastorale e vita comunitaria: sono quattro pilastri che interagiscono, e tu devi pregare con le cose che studi o con quello che vedi nella vita pastorale, nel fine settimana, o con quello che succede in comunità. La preghiera deve rivolgersi a tutto, è in rapporto con tutto. I quattro aspetti sono interattivi, non sono pezzi separati: è una unità dei quattro pilastri della formazione. E quando tu vai dal padre spirituale, dal tuo accompagnatore o dal tuo rettore o dal superiore della comunità, devi parlare di tutti e quattro, come interagiscono, e cercare la relazione che c’è. Non so se è chiaro questo… E’ chiaro? Sono quattro, ma bisogna parlare della relazione, del rapporto tra i quattro.
Poi, questa è un po’ una curiosità – ma povera Eva, cosa è successo con la curiosità! – “infine vorremmo sapere quale brano della Scrittura, scoperto e gustato maggiormente grazie agli studi, L’ha accompagnata nella preghiera durante gli anni di formazione e L’accompagnano tuttora”. A me colpisce tanto la dimensione della memoria, la dimensione “deuteronomica”, e per questo un brano della Bibbia che mi ha accompagnato – e sempre ci ritorno – è Deuteronomio 26: “Ricordati, non dimenticare: quando tu arrivi a quella terra che tu non hai conquistato, quando tu avrai la pancia piena delle cose che tu non hai seminato, quando tu abiterai in case che non hai costruito tu, ricordati: ricordati che sei stato schiavo in Egitto” (cfr vv. 1-7). La memoria: sempre guardare indietro, da dove vengo, da dove il Signore mi ha salvato. Questa dimensione deuteronomica mi fa bene. “Ah, io sono un grande prete, guarda, mi hanno nominato rettore di quel santuario, faccio questo e questo…”. Ricordati da dove ti hanno preso. “Io non ero profeta né figlio di profeta, ma tu mi hai preso da dietro il gregge…” (cfr Am 7,14-15). Questo mi colpisce tanto: tornare, ricordati, non gonfiarti di vanità, di superbia, di autosufficienza… Tutto è dono, tutto è grazia, tutto ti è stato regalato. Questo è un brano col quale io oggi prego tanto, mi fa bene.
Poi, un altro brano che io considero come la storia della mia vita è Ezechiele 16. Del Nuovo Testamento, mi soffermo – sarà perché mi piacciono le feste – mi soffermo sulle nozze di Cana: come la Madonna agisce in quel momento, discretamente, come si accorge, come fa…; e quel comando della Madonna – è l’unico comando che ci dà la Madonna –: “Fate quello che Lui vi dirà” (cfr Gv 2,5). A me piace, questo mi tocca. Sono i tre brani che, vorrei dire, mi toccano tanto. Ma il primo, mi raccomando: prendete questa dimensione deuteronomica della vita che vi aiuterà tanto, con la memoria, a non credervi più di quello che siete.
Piergiorgio:
Santo Padre, buongiorno, sono Piergiorgio dalla diocesi di Crema. Sono accolito e sabato prossimo sarò ordinato diacono. Alcuni tra noi seminaristi riceveranno nei prossimi mesi il ministero dell’accolitato che li renderà ministri straordinari della Comunione eucaristica. L’approfondimento del santissimo mistero dell’Eucaristia perciò accompagna e accompagnerà tutto il nostro cammino. A tal proposito, e anche in occasione del Sinodo dei giovani, vorremmo porle una domanda che nasce dalle nostre esperienze pastorali. Vedendo tanti giovani che non riconoscono l’Eucaristia nemmeno come qualcosa di importante, come possiamo al contrario farne percepire addirittura la centralità culminante e sorgiva per la vita di ogni uomo e ogni donna? In tal senso, vorrebbe condividere con noi un Suo ricordo di gioventù riguardo al rapporto con Gesù Eucaristia?
Papa Francesco
Ieri, all’Altare della Cattedra [nella Basilica di San Pietro], alle sei meno un quarto di pomeriggio, c’erano quasi mille giovani, e ho dato una meditazione, e poi loro hanno fatto un’ora di adorazione eucaristica. I giovani non rifiutano, ma quando arrivano a capire, a sentire il bisogno... È vero, se tu prendi uno e gli dici: “Vieni, andiamo a fare l’adorazione”, si addormenta… Ma è bello anche addormentarsi davanti al Signore! Santa Teresa di Gesù Bambino lo faceva spesso, e anch’io, è vero! Ma ci vuole una catechesi su cos’è l’Eucaristia, una catechesi di vita. Vi dirò un aneddoto. In una delle parrocchie di Buenos Aires, il parroco faceva il servizio di dare da mangiare la cena ai senzatetto. Era tutto ben organizzato: ogni giorno della settimana c’era un gruppo diverso. Giovani di buona volontà, in maggioranza cattolici, e anche alcuni che non credevano in nulla ma volevano fare questo servizio, e funzionava bene. C’erano quelli che cucinavano,… In totale – pensa – una ventina di giovani ogni giorno: 150 giovani più o meno con quelli che facevano la cucina. A un certo punto il parroco ha detto: “Questi stanno facendo bene questo servizio. Io devo fare di più”. Che cosa ha proposto prima di uscire? Ascoltare una parola del Vangelo. Così, tutti in Chiesa, non più di cinque minuti: una parola del Vangelo. E loro dicevano: “È bello questo! Ma è poco…”. E il parroco ha detto: “C’è Gesù qui con noi. Voi andate a dare da mangiare a Gesù bisognoso, ma anche Gesù è qui nel pane, nascosto, possiamo guardarlo un po’ prima di uscire… Ecco, sì – per non farla lunga – ha cominciato a fare quella lettura della Bibbia davanti al Signore, non più di un quarto d’ora. E questi giovani hanno imparato cos’è l’Eucaristia, ma a poco a poco: la catechesi sull’Eucaristia si deve fare a poco a poco, perché è il mistero grande della presenza del Signore con noi. Tu non puoi andare con un libro e dire: “L’Eucaristia è questo, è il sacrificio dell’Antica Legge che poi, eccetera eccetera”. Il giovane non capirà questo. Fagli sentire il bisogno. In questo caso il prete è stato furbo. Ha detto: “Questi vanno da Gesù bisognoso. Io farò loro vedere il Gesù che dà loro la forza con la Parola, 15 minuti, non di più”. Poi dall’altra parte ha incominciato a fare l’adorazione, e tanti di questi andavano all’adorazione.
A questo proposito, vorrei andare oltre sulle celebrazioni liturgiche. La celebrazione liturgica è un atto di adorazione, un atto di partecipazione alla passione, morte e risurrezione di Gesù, lo sappiamo tutti. È un atto di lode a Dio, di gioia spirituale. Ma tante volte sembra una veglia funebre! E lì dobbiamo aiutare i preti. E voi che sarete preti, per favore, non annoiate la gente. C’era un’abitudine – non so se ancora qui si fa –: quando incominciava la predica, tanti uscivano a fumare una sigaretta. La predica noiosa. La predica è l’omelia: deve toccare il cuore. Al contrario se è noiosa non si capisce. Voi, da preti, leggete quello che sta scritto in Evangelii gaudium sull’omelia. È lungo ma ho voluto farlo così. Toccare. Un sacerdote che ha insegnato a noi omiletica, ci diceva: “Un’idea, un’immagine, un sentimento”. E questo si può fare in cinque minuti. Pensate che psicologicamente la gente non può mantenere l’attenzione per più di otto minuti. Una omelia di otto minuti, e ben preparata: con un’idea chiara, un sentimento chiaro e un’immagine chiara.
L’amore dell’Eucaristia si deve fare con una catechesi, ma in questo modo mediante la Messa: che vedano come si celebra la Messa. Che capiscano questo. L’adorazione è più facile per la catechesi ai giovani che la Santa Messa, perché tu puoi spiegare: saranno venti minuti di adorazione, e il sacerdote ogni sei/sette minuti dice una parola, e questo aiuta. Introdurre l’adorazione. Ma la celebrazione eucaristica è importante: è importante farla bene, che sia culto di adorazione, di gioia, di comunione fra noi, comunione con il Cristo. Noi in questo siamo in crisi: non abbiamo risolto il problema della celebrazione eucaristica. Parlo in generale. Ci sono esempi molto validi, ma in genere dobbiamo riprendere. E questo è un problema mondiale. Alcuni credono che non dobbiamo fare bene le rubriche: non va. Dobbiamo fare festa e fare rumore: non va. Ci vogliono buone rubriche, ci vuole festa, ci vuole musica, ci vuole preghiera, ci vuole silenzio. Ma celebrare l’Eucaristia non è facile, e questo è un compito per voi come futuri sacerdoti. Poi tante volte l’Eucaristia – questo è brutto, ma devo dirlo – l’Eucaristia si celebra troppo “socialmente” [come usanza sociale], non comunitariamente. C’è una Messa per quel papà defunto? Approfitta di quell’usanza sociale per evangelizzare, per dire una parola bene, celebrare con bellezza. Diceva un vescovo, qui in Italia, che alcuni dei suoi preti, quando chiedono loro di andare a dire una Messa per un anniversario nei villaggi, se non arriva prima l’offerta non ci vanno. Questo non lo invento. Quel vescovo me l’ha raccontato. E’ strumentalizzare l’Eucaristia. Questo lo sottolineo perché è il centro della nostra vita. Ma oggi la celebrazione eucaristica è in crisi. Sono stati fatti dei passi buoni, ma dobbiamo curarla sempre. Tu non puoi andare a celebrare l’Eucaristia di fretta, “toccata e fuga”. No. Il tuo cuore deve essere lì, nell’Eucaristia. E questo contagia. Quante volte la gente dice: “Come celebra bene questo sacerdote!”, e si riferisce all’unzione [spirituale], la vera unzione. Pensate a questo. Io ricordo da ragazzo, da bambino, l’Eucaristia, e la suora che mi ha preparato – era brava, ci faceva cantare, ci insegnava la Messa con un canto che forse si canta: “O Santo altare custodito dagli angeli”. Ci insegnava il canto e poi ci spiegava una cosa e un’altra… e noi eravamo curiosi. E così mi ha insegnato la Messa, preparandomi per la Prima Comunione.
Non so, su questo mi sono allungato un po’ ma mi preoccupa: la celebrazione eucaristica sia degna, pia, che coinvolga anche l’affetto della gente. E anche nell’Omelia. Poi da giovane, dopo la mia conversione, a diciassette/diciotto anni andavo una o due volte al mese a fare l’adorazione perpetua dai Sacramentini, la sera. Era il tempo in cui non c’era la Messa vespertina, e i Sacramentini a Buenos Aires hanno la chiesa in un quartiere centrale, anche elegante. Ricordo – erano le cinque e mezzo del mattino – c’era la Messa, dopo l’adorazione, e lì veniva la gente dalle feste direttamente alla Messa, per dormire tutta la domenica. Questo – mi ricordo – non mi piaceva perché dicevo: “Ma questi vengono a Messa solo per soddisfare il precetto”. E il lusso delle donne lì non mi piaceva tanto. Ma quelle sere di adorazione… Era un’ora, poi quaranta minuti di riposo, poi un’ora. Mi ha fatto bene in quel tempo prepararmi per la decisione definitiva. Sì… Non so se ho risposto alla domanda sull’Eucaristia.
Marco:
Santo Padre, sono Marco, della diocesi di Milano, seminarista di quinta teologia. Santità, l’anno di quinta teologia è un anno decisivo in ordine al cammino di discernimento vocazionale, in vista degli ordini sacri. Le chiediamo: come ha vissuto la parte del discernimento spirituale nella Sua vita? Come ha compreso la chiamata alla vita religiosa e al sacerdozio, con particolare attenzione alla vita affettiva? Come le diverse figure di accompagnamento spirituale negli anni della formazione sono state veri e propri soggetti del Suo discernimento?
Papa Francesco:
Come ognuno di voi ha fatto discernimento nella propria vita per decidersi ad entrare nel seminario. È una strada, quella di discernere e vedere cosa il Signore vuole da me, accompagnato da un altro che mi aiuti. Come si vede? Cosa sento, cosa mi lascia in pace, cosa mi lascia inquieto, cosa mi toglie la pace… Io ho avuto un grande uomo che mi ha aiutato tanto, in questo: era il decano di filosofia, ma era un uomo che aveva studiato molto la vita spirituale e soprattutto il discernimento dal tempo dei monaci fino adesso. E mi ha aiutato tanto. Dava dei consigli reali, concreti per aiutare ad andare avanti. Per esempio, ricordo una volta che si parlava, in una scuola di antropologia, si parlava della maturità. “E come si sa – ha detto un mio compagno – come si sa se uno è maturo o non è maturo?”. E lui ha detto: “Mah… tu hai fratelli e sorelle: sono sposati?” – “Sì, due” – “E hanno figli?” – “Sì” – “Tu sei capace di giocare con i tuoi nipotini?” – “Eh, non so…” – “Prova: se sei capace, vai bene; se non sei capace, ti manca qualcosa”. Le cose concrete della vita ti portano al discernimento, e un segnale di maturità è la capacità di giocare con i bambini. Un uomo che non sa giocare con i bambini, gli manca qualcosa. Giocare con i bambini della famiglia; perdere il tempo, come i papà, i papà e le mamme…, le mamme lo fanno più spesso perché sono con il bambino, ma il papà quando torna dal lavoro stanco, deve fare uno sforzo per giocare con il bambino … Questo è un esempio di discernimento. Discernere è la vita cristiana. Oggi, perché devo fare l’esame di coscienza? Non solo per fare la contabilità dei peccati che ho commesso o le virtù di oggi, ma per vedere cosa è successo nel mio cuore. Un ragazzo guarda una ragazza e gli piace… Che cos’è? Poi gli piace un’altra volta; guarda un’altra e non gli piace… E lui va lavorando su questo, e alla fine le parla, si fidanzano e vanno avanti. Vedere cosa succede nel mio cuore: questo è discernere. Cosa succede dentro di me: quali pensieri mi danno gioia, quali pensieri mi danno tristezza, quali cose mi lasciano triste e le sento come cose che non servono… E una delle cose più difficili nella vita cristiana e nella quale ci vuole discernimento, tanto, è come convivere con il peccato. Tutti siamo peccatori, tutti; e non solo in teoria, in pratica. E quando io cado, come convivo con questa caduta? Come risolvo questo fallimento? Cercare nella preghiera, nel consiglio come andare avanti con il peccato e risolverlo. Ricordo una volta, ero a Buenos Aires, in episcopio, avevo gli appuntamenti, e la segretaria viene e mi lascia una busta e dice: “Il padre tale è qui, chiede soltanto di leggere questo, tra un appuntamento e un altro”. Io l’ho preso e diceva: “Padre, ho peccato. Ho bisogno del Suo aiuto. Io sono tranquillo, aspetto sotto. Quando ha un po’ di tempo, mi chiami”. E non se ne andò dall’episcopio fino al momento in cui l’ho chiamato. E’ un esempio estremo, ma quell’uomo era in crisi perché non sapeva come risolvere una scivolata che aveva fatto. Questo è discernere. Sono in una oscurità per un errore, un peccato che ho fatto, vado dal Padre, subito; o vado da quel compagno che mi aiuterà. Ma cercare sempre chi mi aiuti a convivere con le mie cose brutte, con i miei sbagli. Anche con le cose buone, ma voglio sottolineare il convivere con il peccato, perché sembra che noi non sappiamo bene come risolvere il problema concreto di essere peccatori. Lo risolviamo in teoria, ma non in concreto. E per questo ci vuole discernimento.
Io vorrei salutarvi ad uno ad uno, ma sentiamo l’altra domanda…
Don Davide:
Santo Padre, sono don Davide, da due settimane diacono della diocesi di Milano. Santità, vorremmo rivolgerLe una domanda a partire dalla frase paolina “Siate lieti nella speranza”. Quello della speranza, infatti, è un tratto necessario ed essenziale della testimonianza che la Chiesa deve dare di Cristo, ed è solo la vera speranza che sgorga dalla Pasqua di Gesù a permettere a noi seminaristi di consegnare la vita a Dio e alla sua sposa. Molti, però, sono i nemici di questa speranza: negli ultimi mesi abbiamo assistito a gravi vicende che hanno scosso dall’interno la barca di Pietro e ci hanno profondamente desolato. Le chiediamo: come stare autenticamente davanti agli scandali che ci affliggono e coinvolgono anche i consacrati? Come aiutare i fedeli a non perdere la speranza malgrado la povertà dei suoi ministri? Insomma, quali passi di conversione per noi preti e futuri preti in questo senso?
Papa Francesco:
“E’ necessario che ci siano degli scandali” – dice Gesù. Lo scandalo è dall’inizio della Chiesa: pensate ad Anania e Saffira, quei due che volevano truffare la comunità: uno scandalo. Pietro ha risolto in modo chiaro lo scandalo, in quel caso: ha “tagliato la testa” a tutt’e due. Gesù dice che sì, è necessario che ci siano gli scandali per vedere dove sta il tuo cuore, ma anche ammonisce: “Guai, guai a voi se scandalizzate uno di questi”. Scandalizzare il popolo di Dio, questo è bruttissimo. E’ bruttissimo. E non parlo dello scandalo dei deboli, ma del popolo di Dio: lo scandalo del prete al popolo di Dio. Nella mia terra, per esempio, il popolo di Dio non si scandalizza molto, ma agisce. Per esempio, è capace di perdonare un povero prete che ha una doppia vita con una donna e non sa come risolverla: “Ah, povero uomo, aiutiamolo…”, ma non condanna subito. E’ capace di perdonare un altro prete che è un po’ solo e prende il bicchiere troppo spesso: “Eh, poveretto, un po’ di vino gli fa bene, è solo…”. Il popolo ha una saggezza grande. Ma non ti perdona il prete che maltratta la gente: questo non te lo perdona! Perché si scandalizza. E non ti perdona il prete attaccato ai soldi: non te lo perdona. Scandalizzare la gente è una cosa brutta, e anche scandalizzare il presbiterio è una cosa brutta. Se tu vai a una riunione di presbiterio e parla il vescovo, o parla un altro, e poi esci con uno o due amici a chiacchierare contro il vescovo o contro quell’altro che ha detto quella cosa, contro quell’altro… questo è uno scandalo che ferisce il corpo. Lo scandalo ferisce. Noi dobbiamo essere chiari: su questo punto non cedere. Gli scandali, no. Soprattutto quando gli scandali feriscono i più piccoli. Il popolo è più semplice… Condannare lo scandalo, sempre. Non cedere. “Ma come posso fare?”. Vai, parlagli. Parlagli come fratello: “Senti, tu stai scandalizzando la gente con questo”. O vai dal vescovo e dillo al vescovo: “Gli parli lei come padre”. Ma quando voi doveste vedere che un prete scandalizza, per favore andate o direttamente da lui o dal suo amico o dal parroco o dal vescovo, perché lo aiuti. In Argentina c’è l’abitudine di invitare i sacerdoti alla festa delle nozze: quando fai le nozze, poi ti invitano alla festa. Da noi si fanno in tarda serata, le nozze; poi c’è la festa. E tanti preti vanno lì e fanno una brutta figura perché sono in mezzo a una festa mondana e poi bevono troppo... Uno scandalo… “No, io vado per fare apostolato” – Ma per favore! [ridono] E’ vero che gli sposi chiedono “sì, venga, venga!”, ma i preti furbi dicono così: “No, veda, io verrò, ma quando voi tornerete dal viaggio di nozze, io verrò a casa vostra, benedirò la casa e farò cena con voi due”. Questo non scandalizza. Ma, per favore, l’arte di stare al proprio posto. Per essere nel posto di sacerdote non bisogna essere rigido, no, umano, normale. Ma al tuo posto. Non scandalizzare mai.
Dietro la tua domanda c’è lo scandalo degli abusi. Voi conoscete le statistiche: il 2% degli abusi che si fanno sono stati fatti da preti. “Ah, è poco, Padre”. No. Perché se fosse un solo sacerdote, questo è mostruoso. Non giustifichiamoci perché siamo soltanto il 2%. Il 70% avviene nelle famiglie e nel quartiere; poi, nelle palestre, gli allenatori; nelle scuole… E’ uno scandalo, ma è uno scandalo mondiale che a me fa pensare ai sacrifici umani dei bambini, come facevano i pagani. Su questo punto, parlate chiaro: se voi vedete una cosa del genere, subito al vescovo. Per aiutare quel fratello abusatore. Subito al vescovo. Ma ci sono altri scandali di cui non è di moda parlare. Uno scandalo forte è il prete mondano, quello che vive nella mondanità spirituale. Un uomo educato, socialmente ben accettato, ma mondano. Mai lo si vede pregare davanti al tabernacolo; mai tu vedi che va in un ospedale e si ferma e prende le mani agli ammalati, mai. Mai opere di misericordia, quelle difficili da fare. Fa il prete mondano: questo è uno scandalo. E la mondanità… Mi ha colpito tanto quando ho letto, per la prima volta, Meditazione sulla Chiesa del Cardinale de Lubac: l’ultimo capitolo, le ultime due pagine. Cita un benedettino che dice che il peggiore peccato della Chiesa è la mondanità spirituale. E’ convertire la religione in un’antropologia. Leggete queste due pagine: vi farà bene. Vi farà bene.
Don Marco
Buongiorno, sono don Marco, del seminario di Cremona. A Firenze Lei ha consegnato alla Chiesa italiana la Evangelii gaudium, e ci siamo immaginati che cosa volesse dire non solo “consegnata alle diocesi e alle parrocchie”, ma “consegnata alla comunità del seminario”: quali sono i processi di rinnovamento che ogni comunità, anche con i propri Vescovi, con i propri educatori siamo impegnati a fare. La seconda cosa che vorremmo chiederLe, come educatori, è che prima di tutto stare in seminario con questi giovani è qualcosa di grande per noi, ma è anche qualcosa che ci chiama a conversione tutti i giorni, è quello che ha appena detto del prete: cosa vuol dire essere autentici come preti. Magari noi non abbiamo da insegnare loro delle grandi filosofie: dobbiamo far capire loro che spendere la vita è una cosa… ma per noi diventa molto impegnativo. E la terza cosa che vorremmo chiederLe è: quando il Vescovo ci chiede nell’ordinazione per i seminaristi: “Sei certo che ne sono degni?”, allora ti vengono in mente tutte le riflessioni: il futuro che si apre davanti a loro, con la grazia di Dio, con la Chiesa… Ecco, se ci può aiutare a dire – lo ha accennato prima – che cosa vuol dire vivere da presbiteri, in modo comunitario, il noi, non solo l’io. Prima ha fatto accenno al clericalismo: può dire ancora una parola su questo? Grazie.
Papa Francesco:
Qui, anche nella domanda scritta era: “Una domanda sulla paura di essere in uscita e abitare la condizione di Chiesa come ospedale da campo. Per vivere questo è necessario riallacciare il nodo vocazione-conversione. Ci colpisce come Lei inviti spesso la Chiesa a cogliere come lo Spirito ci porta fuori dalle nostre sicurezze: come possiamo evitare saggiamente il rischio? Cosa può voler dire per noi che dobbiamo aver cura anche di un’antica tradizione di formazione seminaristica? Cosa può suggerirci per aiutare i nostri giovani a gustare il rischio del Vangelo e non irretirsi in forme di difesa e di clericalismo?”. Ho voluto leggerla perché erano tre e volevo…
Prima di tutto, mettili in cammino. Una formazione sul serio è metterli in cammino, che non stiano fermi. Mettili in cammino perché un prete che non è in cammino pensa a stupidaggini, dice stupidaggini e fa stupidaggini. In cammino, sempre, perché almeno non faccia stupidaggini. “Ma è rischioso…”. Sì. Farà delle scivolate, ma vi dico una cosa: io tante volte ho pregato il Signore per un prete – come esempio per tanti, ma pensiamo a uno – perché gli buttasse una buccia di banana e lui facesse una bella scivolata che lo umiliasse e così potesse andare avanti. Metterli in cammino, senza tante sicurezze. E’ vero che è un rischio, quello di formare la gente è un rischio, ma prendete il rischio. Una volta, un vecchio prete saggio diceva: “Quando il vescovo ha domandato al mio rettore: Sapete se questo è degno?, in quel momento il mio rettore si era addormentato, e ha risposto non so che…”. E’ un rischio.
L’altro ieri ho dovuto – sentite questo – ho dovuto, da Roma!, sospendere un’ordinazione sacerdotale in un altro continente. Ma cos’ha quel Vescovo nella testa? E quei formatori che presentano al Vescovo una persona così: le notizie che erano arrivate erano terribili! Ci sono questi casi, ma la maggioranza non è così. Voi avete un’esperienza di fraternità, voi siete fratelli maggiori, e con il dialogo… Si rischia. Nella vita chi non rischia non va avanti. Ma rischiare con prudenza, rischiare con prudenza. E da dove prendo la prudenza? Dalla mia esperienza di accompagnamento di questo giovane, e dalla preghiera. Non c’è un “come” preciso. Nelle riunioni per esaminare l’idoneità ci sono dei pro e dei contro, ma voi dovrete prendere una decisione prudenziale e farla sapere al Vescovo, e sarà il Vescovo a decidere. Ma voi siete corresponsabili con il Vescovo.
“Aiutare i nostri giovani a gustare il rischio del Vangelo” è metterli in cammino, perché sentano tante cose che sente uno che è in cammino: l’accettazione, il rifiuto, l’insulto, le lodi, la vanità… E che imparino questo: a distinguere le cose. E soprattutto – userò una parola un po’ strana – educarli alla pazienza. C’è un libro di Guardini, non so come sia stato tradotto in italiano, “Glaubenserkenntnis”, “la conoscenza della fede”, dei capitoli su diversi temi: il primo è sull’adorazione, il secondo capitolo sulla pazienza di Dio. Educarli alla pazienza, perché anche Dio è paziente. Quel capitolo è un gioiello: cercatelo e fatelo conoscere. Dio è paziente con noi.
Il problema dell’irrigidirsi: la difesa, il clericalismo… Quando in un giovane – questo è un criterio che dico sicuro – se tu vedi un giovane seminarista che si irrigidisce, che cade nella rigidità, fallo aspettare. Se è rigido non è adatto per l’ordinazione. Oggi la rigidità è un impedimento all’ordinazione. Se vedi un altro che prende tutte le cose sul serio e non ha il senso dell’umorismo, mandalo a lavorare al circo per un po’!, poi quando torna, dopo due anni, vedremo come vanno le cose. Il senso dell’umorismo, non rigidità: la rigidità è un impedimento. Dietro ogni rigidità ci sono brutti problemi.
Potrei continuare, ma… L’ultimo.
Don Ivan
Buongiorno, Santità, sono don Ivan, rettore del seminario di Como. Le rivolgo una domanda da parte dei formatori e dei docenti. E’ una domanda sul criterio “il tempo è superiore allo spazio”. Oggi ci sembra sempre più decisivo che il ministero sia concepito e soprattutto vissuto in modo comunionale, e cerchi così di declinare il messaggio profondo del Concilio. Questo è importante sia per il modo in cui viviamo nel presbiterio, sia per il modo in cui proponiamo ai seminaristi il modo di vivere e formarsi con noi, tra loro e con coloro che incontrano. Abitare il processo ci fa apprezzare il bene possibile, orientato al Vangelo, e Lei insiste continuamente su questo aspetto. Santità, ci può aiutare a declinare educativamente la portata di questo criterio “il tempo è superiore allo spazio”? E poi, nell’ambito di questa domanda, che cosa chiede ai docenti dei seminari delle diocesi lombarde? Grazie.
Papa Francesco:
Abitare il processo è non avere paura. La vita avviene sempre in processo: i bambini non nascono adulti, è tutto un processo per diventare, è tutto un processo di maturazione o di corruzione, ma è un processo. E come aiutare i seminaristi e anche i preti in questo. È il metodo di Gesù con gli Apostoli! Noi possiamo prendere come Gesù insegnava agli Apostoli, come li faceva entrare nel lavoro di evangelizzazione… Pensa che tutti [i seminaristi] sono in processo. Quelli che hanno fatto male il primo passo, se non si corregge questo, cammineranno male tutta la vita. Pensa all’“arrampicatore”, per esempio: se tu non correggi un seminarista che dà segnali di essere arrampicatore, faremo male alla Chiesa. Ho sentito una volta un vescovo con esperienza che diceva: “L’arrampicatore vuole il massimo, ma se tu gli offri la diocesi più piccola, la prenderà, perché fa un passo in avanti: adesso è vescovo. Ma invece di guidare la diocesi, guarderà l’altra, quella del vicino e – diceva quel vescovo – questo è adulterio episcopale: guardare la sposa dell’altro. Fino ad arrivare dove lui vuole”. L’arrampicatore è sempre in processo. A me ha toccato tanto la parola di San Giovanni Paolo II quando l’allora Prefetto della Congregazione dei Vescovi è andato a dirgli: “Mi dia qualche criterio per la scelta dei vescovi”. E, con quella voce che aveva Giovanni Paolo II [abbassa il tono della voce]: “Primo criterio: volentes nolumus”. Con questo voleva dire: non c’è posto per gli arrampicatori. Servizio. Anche il santo è in processo: andare… mai si arriva alla santità, si vive una vita di santità in processo. E si cerca di andare con questo metodo di Gesù: Gesù scommetteva sul tempo, sullo sviluppo dei discepoli; sapeva tollerare gli sbagli: tollerò Pietro quando lo rinnegò, tollerò gli altri che erano fuggiti, perché Gesù seguiva i processi.
Ho dato questi due esempi, l’arrampicatore e il Santo, tutti e due in processo. Torno indietro: la persona rigida non è in processo. Con questo vedete bene la cosa: il rigido custodisce sé stesso, perché ha paura o ha una qualche malattia dentro, uno squilibrio, per coprire qualcosa…, ma è sempre incapace di entrare in processo. Invece, il bene e il male sono in processo sempre.
Non so…, è un po’ la sintesi di quello che volevo dirvi. E vi ringrazio della fiducia nel fare delle domande. La saggezza nella vita cristiana piuttosto che dare risposte è nel saper fare delle domande: a Dio, alla comunità, al vescovo, ai preti…, saper fare delle domande. Con questo andremo su questa strada del tempo, dei processi. Se un giovane non sa fare delle domande, deve imparare: questo è il lavoro vostro, dei formatori. E se non impara, non serve per il sacerdozio.
Grazie tante per la vostra testimonianza!
“Ave o Maria…”
[Benedizione]