Valerio Morucci non nasconde il suo imbarazzo. Seduto accanto ad Agnese
Moro, lui che fu uno dei responsabili del sequestro di suo padre, continua a
parlare della prima guerra mondiale e di quella tregua del Natale 1914 che fu
una sorta di “miracolo” spontaneo tra soldati francesi, tedeschi e britannici che
si riconobbero fratelli e uscirono dalle trincee per stringersi la mano. Per l'emozione gli
cadono i fogli, che Agnese raccoglie, poi, con fatica, torna a parlare di sé, e
di quel meccanismo che, come i soldati della prima guerra mondiale, ha cominciato
a portarlo fuori dalla «disumanizzazione», da quella «demonizzazione dell’avversario che
non ne faceva più una persona, ma un simbolo».
«Sono state le lettere di Aldo
Moro alla famiglia», confessa davanti a un pubblico attentissimo, «a rompere gli schemi che mi ero costruito». Quelle
lettere che faceva ritrovare a Nicola Rana, segretario particolare di Moro e
presente in prima fila, nella sala civica dei Disciplini, a Castenedolo, la sera
del 5 febbraio. Prima di salire sul palco, ospite dell’Associazione culturale
Aldo Moro, Morucci lo saluta. Una mano poggiata lievemente sulla spalla e poche parole. Alla fine
sarà Franco Bonisoli, anche lui nel gruppo di fuoco di via Fani, a tendergli
una mano che Rana – per la prima volta dopo tanti anni - non rifiuta.
Nella sala stracolma la gente guarda e ascolta. Con un
silenzio che cerca di comprendere l’esperienza, narrata nel libro dell’Incontro
(edito dal Saggiatore), e che questa sera si sta di nuovo compiendo sotto i
loro occhi.
Con Agnese Moro, Valerio Morucci e Franco Bonisoli anche Manlio
Milani, che perse la moglie nella strage di piazza Loggia, Gherardo Colombo,
tra i garanti del gruppo, e padre Guido Bertagna, il gesuita che per primo ha
iniziato questa esperienza di giustizia riparativa supportato da Claudia
Mazzucato e Adolfo Ceretti.
«La fatica dell’incontro è più faticosa della cella», spiega
l’ex magistrato sottolineando il suo iniziale scetticismo verso una giustizia
riparativa. «Quando ho iniziato a fare il magistrato ero convinto che il
carcere servisse, invece mi sono reso conto che non è uno strumento che cura il
male».
Ed è proprio la cura del male, il ridare fiato al piccolo
seme di vita che è rimasto il senso dell’incontro. «Guardare il volto dell’altro
e scoprire che non sono dei mostri. Questo ha cominciato a scongelare anche la
mia vita, a rimettere in moto quella speranza che le cose possano davvero
cambiare», ricorda Agnese Moro. Ma ci vuole «ed è il punto centrale sul quale
si sostiene il gruppo, un ascolto profondo,
disarmato, in cui l’altro si rivela e che chiede un esercizio costante paziente
e coraggioso», aggiunge padre Guido Bertagna.
«Con il coraggio», conclude Manlio Milani, «anche
di “tradire” in qualche modo se stesso come vittime per essere cittadini,
ricordandosi che quegli eventi hanno colpito la collettività e poi anche noi ed
è una memoria collettiva che va sanata».