Quando nel 1976 Pietro Ingrao venne eletto presidente della Camera, primo comunista nella storia della Repubblica, Indro Montanelli, dalle colonne del suo Giornale lanciò una durissima campagna contro di lui. In particolare, si rivolse al nuovo vicepresidente dell’assemblea, Oscar Luigi Scalfaro, per metterlo in guardia. «Chiamai Scalfaro e gli spiegai che non avevo nessuna intenzione di fargli guerre di partito. Anzi, poiché sapevo che egli aveva una vasta esperienza dei meccanismi di lavoro della Camera, gli dissi: “In queste cose tu ne sai molto più di me. Seguile tu”. A me inoltre non piaceva molto presiedere l’assemblea e apprezzavo il garbo e l’ironia con cui quel leader democristiano reggeva l’assemblea. Insomma, tra noi nacque un’amicizia, tanto che lui scherzosamente mi chiamava: “il mio presidente“».
Altri tempi, quando in Italia c’erano la Dc e il Pci, e il mondo era diviso in due. Pietro Ingrao li ha vissuti da protagonista. Lo incontriamo a Roma, nel semplice appartamento dove vive da cinquant’anni, per parlare della sua autobiografia (Volevo la luna, Einaudi)
. – Quando iniziò ad avere i primi dubbi sull’Unione Sovietica di Stalin?
«Fui molto colpito dal patto di non aggressione fra Germania e Unione Sovietica che Ribbentrop e Molotov stipularono nel 1939. Allora facevo parte di un gruppo clandestino legato al Pci. Quel patto per noi fu una mazzata. Ci sembrava incomprensibile».
– E quando venne a conoscenza delle violenze del regime sovietico?
«Già dalla metà degli anni Trenta sapevo confusamente delle persecuzioni feroci di Stalin contro il trotzkismo, contro Zinoviev e Kamenev: i processi truccati, le prigioni, gli esili. Il mito di Stalin era più forte di tutto. Ci volle il Rapporto Kruscev per rivelare in tutta la sua crudezza l’amara realtà».
– Lei allora dirigeva l’Unità. Fu l’unico giornale comunista a pubblicare quel Rapporto, scavalcando addirittura Togliatti...
«Sì, lo pubblicai senza il suo consenso. Scelsi di farlo perché il suo silenzio su quanto era avvenuto mi sembrava insostenibile. Un anno dopo, Togliatti tornò per la seconda volta in Urss e al ritorno fece una relazione al Comitato centrale in cui continuò a tacere sullo stalinismo che durava anche sotto Kruscev. Tutta la generazione più giovane del Pci, da Giorgio Amendola, a Pajetta, a me, insorse contro quel Rapporto reticente. Il contrasto venne poi superato. Ma dentro di me si accentuò sempre di più il rifiuto della lettura monolitica del potere sovietico, fino alla rottura del 1968, quando noi comunisti italiani condannammo duramente l’invasione sovietica di Praga».
– Eppure, nonostante questi contrasti, tra lei e Togliatti vi fu un rapporto di forte affetto personale.
«Sì, quando dirigevo l’Unità ci vedevamo ogni giorno. Spesso scherzavamo sul fatto che secondo me lui di letteratura capiva molto poco. Io amavo i grandi autori del Novecento, Kafka, Joyce: lui invece si fermava a Carducci. Anche Pascoli gli garbava poco. Ma era pur sempre il capo comunista che era stato promotore e guida dell’unità antifascista e partigiana».
– Torniamo al ’68, l’anno delle rivolte studentesche a cui parteciparono attivamente anche le sue figlie. Come visse quei mesi?
«C’era trepidazione perché la polizia ci andava pesante: Bruna, ma soprattutto Renata, la più piccola, si presero un mucchio di botte a Roma, negli scontri di Valle Giulia. Con mia moglie Laura, anch’essa comunista militante, trepidavamo. E però c’era pure orgoglio nel vedere quelle figlie giovanissime continuare le nostre battaglie. In quegli anni avevo la casa sempre piena di ragazzi che, tra una discussione e l’altra, scoprivano la cospirazione politica e anche gli amori della prima giovinezza».
– Il suo libro è anche un bellissimo racconto della storia d’amore fra lei e sua moglie Laura. C’è un episodio che ricorda con particolare tenerezza?
«Eravamo molto diversi, ma tra noi c’è sempre stato un legame fortissimo. La conobbi perché lei e il fratello Lucio facevano parte del mio stesso gruppo clandestino romano. In uno dei nostri incontri, da maschiaccio rozzo quale ero, cercai di baciarla. Lei mi diede un sonoro ceffone e aggiunse: “Ragazzo mio, bada, siamo qui solo per gli obblighi di partito, ma non ti fare illusioni”. Qualche tempo dopo, ci furono arresti della polizia fascista nel nostro gruppo. Finì in manette pure Mario Alicata. Era assai probabile che gli sbirri fascisti fossero anche sulle mie tracce. Mi consultai con Lucio, fratello di Laura, appena uscito dal carcere e ora sotto le armi. Io esitavo a entrare in clandestinità. Lucio alla fine mi convinse. Sulla soglia della porta, mi raggiunse Laura e mi baciò, senza dirmi nulla. Quel saluto inatteso ha segnato la mia vita».
– È stato molto amico di padre Benedetto Calati. Cosa la affascinava in lui?
«Ci incontravamo nel convento di Monte Giove dove organizzava incontri aperti a credenti e non credenti. Mi piaceva la sua curiosità verso le vicende umane altrui, indipendentemente dalle figure – alcune credenti altre atee – che partecipavano al dialogo. Io ho sempre coscienza dei miei peccati e non ho mai visto sul suo viso un’espressione di condanna. Cercava il dialogo con animo umano».
– Lei racconta che suo padre negli ultimi anni della vita si riavvicinò alla fede. Potrebbe accadere anche a lei? «Posso parlare solo per come mi conosco oggi. E oggi dico no».