Monsignor Sergio Gualberti, bergamasco, da oltre 35 anni in Bolivia, vescovo di Santa Cruz de la Sierra.
Santa Cruz de la Sierra, Bolivia
Dal nostro inviato
Quaranta croci benedette dal Papa. La messa a Santa Cruz è un segno dell’attenzione missionaria del Papa. «Queste 40 croci, fatte secondo lo stile chiquitano, cioè come quelli delle missioni gesuitiche ancora molto presenti in Bolivia, faranno il giro di tutte le diocesi dei 40 Paesi del continente americano fino a tornare a Santa Cruz nel 2018 per il V Congresso missionario americano», spiega monsignor Sergio Gualberti, vescovo della diocesi. Bergamasco di origine, ma da oltre 35 anni in Bolivia, monsignor Gualberti spiega che «la Chiesa latinoamerica, coinvolgendo negli ultimi quattro anni anche Stati Uniti e Canada, si sta muovendo secondo quella linea che papa Francesco sintetizza con la frase “Chiesa in uscita”, quindi Chiesa missionaria».
In concreto cosa significa?
«È un processo lungo e difficile. Occorre far capire ai cristiani che è il battesimo che ti fa missionario, cioè testimone di Cristo lì dove sei. Non sei missionario perché sei un religioso o un prete o perché fai la valigia e parti. Ce lo siamo detti anche ad Aperecida dove abbiamo deciso per la missione continentale, cioè per una Chiesa in stato di missione permanente».
Indios Aymara preparano croci in attesa di accogliere papa Francesco in Bolivia. Foto Reuters.
Con quali problemi si misura la Chiesa boliviana?
«Il tema dell’ambiente, della difesa degli indigeni, della povertà, del narcotraffico. Sul
tema dell’ambiente, come conferenza episcopale, avevamo fatto tre anni
fa una lettera pastorale “L’Universo dono di Dio per la vita”. Siamo
felici che il Papa l’abbia ripresa in due punti della sua enciclica. In
Bolivia c’è molto da fare. Il Paese vive ancora di materie prime e
quindi c’è tutto il problema dello sfruttamento dei minerali che ha
bisogno di molto acqua. C’è un inquinamento spaventoso, ci sono fiumi
dove non ci sono più pesci e acque che non possono più essere usate
neanche per irrigare, ci sono seri problemi alla salute umana . E poi in
questi anni è aumentata la zona di produzione della canna da zucchero e
della soia, che vuol dire disboscare. La foresta si sta ritirando ed è
la preoccupazione che denunciavamo come Chiesa. È vero che c’è bisogno
di un equilibrio tra la presenza dell’uomo e la natura, è vero che c’è
una povertà da superare, ma non può essere a danno della natura perché
poi questo si ritorce, a lungo andare, contro l’uomo. Bisogna
conservare, anche per le generazioni future, non pensare solo ad adesso e non pensare a sfruttare materie che non si possono più rimpiazzare. Va cercata una alternativa».
E sulla questione indigena?
«In Bolivia abbiamo 36 gruppi diversi di indigeni con due grosse etnie,
la aymara e il mondo quecha che costituiscono quasi la metà della
popolazione, e i guarany con 200/300 mila persone più alcuni gruppi in
estinzione con 50/100 persone. I gruppi più piccoli sono quelli
dell’oriente della Bolivia. La Bolivia è molto distinta tra il mondo
andino e il mondo amazzonico e preamazzonico. Le etnie del mondo
preamazzonico e amazzonico stanno scomparendo e sono molto più ridotte
rispetto al mondo andino, anche perché il governo ha dato un appoggio
molto diseguale agli indigeni privilegiando il mondo andino. C’è molta
protesta per questo. E si vede chiaramente che non sono proteste campate
in aria. È stato anche denunciato il fatto che si voleva aprire una
strada verso il Brasile che taglia in mezzo una zona dichiarata
intangibile, quando allungando di trenta, quaranta chilometri si
potrebbe preservare quella zona. Noi come Chiesa siamo sempre stati
contrari a questo progetto che taglia una zona ancora una zona vergine
dove vivono ancora molte comunità indigene».
La povertà sta diminuendo?
«Gli indicatori statistici dicono di sì, ma questo non significa che le
condizioni sono migliorate per tutti. È vero che ci sono i buoni che lo
Stato dà per gli anziani e varie situazioni di difficoltà, però si
possono dare finché il prezzo del petrolio e dei minerali sarà alto, ma
quando scenderà, e sta già scendendo, questi buoni che non avevano un
sostento sicuro e garantito, possono scomparire. Non si è creato vero
lavoro. E poi ricordiamo anche che, per esempio, solo il 30 per cento
della popolazione ha la copertura sanitaria. Il tema salute, quello
dell’educazione, sono temi urgenti da affrontare. C’è un qualche
miglioramento, ma c’è un buon settore della popolazione che vive nella
povertà».
Cosa sperate dalla visita del Papa?
«Che ci dia un appoggio. Speriamo anche che, con la visita al carcere di
Palmasola, dove ci sono detenuti in attesa di processo anche da 5 o 6
anni, il Papa faccia prendere coscienza alla cittadinanza dell’urgenza
di un cambiamento radicale e profondo del sistema giustizia, che è molto
lento e corrotto. Palmasola, con i suoi 5.000 detenuti su 800 che
doveva contenerne, con i tanti bambini che da anni vivono in carcere con
i genitori, con la lunga detenzione senza processo, è un po’ il
concentrato dei problemi della Bolivia. Dentro ci sono soprattutto
persone che hanno compiuto reati legati al narcotraffico. C’è ancora
molta produzione di cocaina in Bolivia e della pasta base della
lavorazione della foglia di coca. Le persone coinvolte sono molte, anche
tante donne spinte dal bisogno. Sono piccole pedine quelle che cadono
nella rete, ma i grandi, quelli che veramente muovono i fili, non li
prendono. E poi è aumentata, anche legata al narcotraffico, la violenza,
il regolamento di conti tra i diversi cartelli che vogliono il
controllo del narcotraffico. Speriamo che la visita del Papa dia una
speranza e che diventi un incentivo per cambiare la realtà».