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mercoledì 06 novembre 2024
 
 

Insegnanti, se 18 ore sembrano poche

13/10/2012  La “legge di stabilità” potrebbe innalzare il monte ore settimanale degli insegnanti delle scuole medie e superiori da 18 a 24. Senza che sia previsto alcun miglioramento salariale.

La notizia si è diffusa nella giornata di giovedì, prima come un’ indiscrezione, poi trovando via via diverse conferme: nella bozza della cosidetta “legge di stabilità” sarebbe presente una norma tesa ad innalzare il monte ore settimanale di insegnamento per i docenti delle scuole medie e superiori da 18 a 24. Un incremento significativo: un aumento del carico di lavoro del 33%, senza che però sia previsto alcun miglioramento salariale.


Dov’è la coerenza?

Anzi, il contratto collettivo nazionale del comparto scuola è scaduto da 3 anni e non sarà rinnovato prima di altri 3. Bloccati anche gli scatti retributivi. Cancellata l’indennità di vacanza contrattuale. Tutte buone ragioni che spiegano l’alta adesione allo sciopero di venerdì, proclamato dalla Flc-Cgil e da altre sigle sindacali. Insomma, i nostri politici continuano a parlare dell’importanza della cultura, del ruolo strategico dell’istruzione, della rilevanza di ricerca e conoscenza, e poi non si fa altro che penalizzare una categoria, come quella docente, i cui salari sono già sensibilmente al di sotto della media europea. La coerenza, evidentemente, non è la dote principale di chi ci governa. Compreso l’attuale ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, che in questi ultimi mesi ha detto tante belle cose sulla scuola, senza che però seguisse alcun investimento di rilievo. Condizione, quest’ultima, indispensabile perla fare funzionare.


Esuberi e concorsi

Un’incoerenza lampante riguarda i numeri. Si calcola che il previsto aumento delle ore di insegnamento determinerebbe un taglio di 29 mila posti di lavoro. Le 6 ore settimanali in più andrebbero infatti a coprire le ore di supplenze e gli “spezzoni” di cattedre (cioè le cattedre non complete). Attività oggi effettuate dai docenti con contratto a tempo determinato, cioè dai “precari”. Su quanti di loro aspettavano una stabilizzazione, questo provvedimento rischia di abbattersi come una mannaia. Intanto, però, il ministro Profumo ha puntato i piedi (anche contro il parere dei sindacati) per bandire un nuovo concorso, finalizzato a mettere in cattedra 12 mila nuovi docenti. Altrettanti saranno quelli sfornati alla fine di questo anno scolastico dal Tfa (tirocinio formativo attivo, il corso post lauream di durata annuale con il quale si conseguirà l’abilitazione all’insegnamento). Che fine faranno questi 24 mila nuovi docenti, se è previsto un taglio di 29 mila? La matematica non è un’opinione.


La sindrome del burn out

Se questa incongruenza non è sfuggita ai commentatori, c’è però un altro aspetto che non è stato adeguatamente sottolineato. Aumentare a 24 le “ore cattedra” non sarebbe un problema soltanto per i precari che non potrebbero più insegnare, ma rappresenterebbe una grave difficoltà anche e soprattutto per i docenti di ruolo. Si tratterebbe, infatti, di aumentare il loro carico di lavoro in maniera sostanziale. Sfatiamo qualche luogo comune: 18 ore di insegnamento frontale a settimana non sono affatto poche. Non si può equiparare la docenza a un normale lavoro di ufficio. Quest’ultimo ha fisiologicamente, nell’arco della giornata, dei rallentamenti, delle pause, dei tempi morti. Chi è in classe, invece, è un attore sul palcoscenico, spesso davanti a una platea tutt’altro che facile da motivare all’attenzione e all’ascolto. Per questo quella dell’insegnante è annoverata tra le professioni usuranti e i professori sono tra i più esposti alla sindrome del burn out (esaurimento).


Un supplemento di riflessione

Forse per questo è bene che il governo si prenda un supplemento di riflessione, prima di presentare alle Camere, nella giornata di lunedì, la bozza definitiva della legge di stabilità. Questo aggravio della pressione sulla classe docente non ha ragion d’essere. Francamente, gli sprechi di denaro pubblico ci sembra stiano da tutt’altra parte, non certo nella scuola, già pesantemente penalizzata in questi ultimi anni da forsennate politiche di tagli (spesso vergognosamente spacciate per “riforme”). Sarebbe bello che questo esecutivo di professori dimostrasse con i fatti (e non soltanto a parole) di avere a cuore la qualità dell’insegnamento. Finendola con i tagli e cominciando con gli investimenti.

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