Quarantuno sì. Parte dal Consiglio regionale della Lombardia e da questo numero la crociata al contrario di chi vuole abolire la legge Merlin e rendere nuovamente legale la prostituzione in Italia. A votare a favore del ritorno al passato è stato il fronte di centro-destra (Lega Nord, Forza Italia, Maroni Presidente, M5s, fratelli d'Italia e Pensionati). Gli argomenti sono i soliti, un mix di realismo paraeconomico, disincanto, rassegnazione. Secondo i promotori, la trasparenza toglie acqua ai grossisti di carne umana perché rende tutto tracciabile perfino al fisco. E aumenta il livello di tutela delle donne che, non più costrette, “possono scegliere” di vendersi sotto controllo medico. Motivazione ulteriore, ma non secondaria in campagna elettorale, è quella che attiene all’ordine pubblico: quelle brutte code di auto davanti a lucciole in minigonne inguinali non fanno bene alla popolarità di sindaci e amministratori pubblici. Meglio cancellarle dagli occhi degli elettori. E poco importa che, in privato, questi bravi padri di famiglia siano anche essi “consumatori”.
Quello che forse non saranno i promotori del referendum e che (ancora una volta) essi si pongono nei fatti contro l’Europa. Strasburgo ha infatti appena ammainato la bandiera della legalizzazione della prostituzione. A fine febbraio il Parlamento ha votato una direttiva che propone ai Governi nazionali la via svedese: punire chi compra sesso, evitando sanzioni a chi lo vende. Una soluzione che secondo la britannica Mary Honeyball, l’europarlamentare che ha curato il Rapporto preparatorio della risoluzione, ha portato in Svezia (ma anche in Norvegia, Islanda e Francia) a una riduzione del numero di clienti superiore a quanto avvenuto in Paesi dove il sesso a pagamento è totalmente libero come l’Olanda.
Le fasi preparatorie della direttiva europea e lo stesso rapporto Honeyball sono stati oggetto di un fuoco incrociato. Perché il fronte dei “legalizzatori” è folto. La Honeyball sembra condividere con i suoi avversari l’analisi delle cause del fenomeno, ma non le soluzioni. In sintesi: le prostitute non sono libere di mettere in vendita il proprio corpo, visto che la loro è una risposta contesti di povertà, diseguaglianza, discriminazione. Ma la strada per uscire da tutto questo non è appunto allargare le maglie della legge ma “alzare gli standard di vita e fornire opportunità a quelle donne”, mentre si riserva al cliente la sanzione del giudice.
Quel che appare certo è che non basta “togliere dalla strada” le lucciole per battere la tratta, cosa che appare più una scorciatoia per lenire la cattiva coscienza che un approccio serio al problema. Secondo il Primo rapporto sulla tratta di persone curato dal Cnca e da Caritas Italiana le persone costrette a prostituirsi sono oggetto di violenza di genere (61,7%), vivono in povertà (57,9%) e sviluppano problemi di salute mentale (51,9%). In misura inferiore, ma pur sempre significativa, fanno uso o abuso di alcool (33,1%), di sostanze stupefacenti (26,3%) e sono senza dimora (26,3%). Inoltre, per quanto riguarda i “luoghi di esercizio”, essi si sono moltiplicati in modo esponenziale nell’ultimo decennio. Non più la strada, ma appartamenti, hotel, night club. Per queste donne il referendum proposto dalla Lombardia sarebbe soltanto una coperta perbenista. Le metterebbe lontani dagli occhi ma non dal cuore dei cittadini elettori. Al riparo dalla vergogna pubblica, ma non dagli aguzzini. Come spesso accade le vie della politica tendono a essere troppo dritte (e corte) rispetto all’entità e alla complessità dei problemi.