Qualcuno la vedrebbe benissimo
come prossimo
premio Nobel per la pace.
Se glielo ricordi, sister Rosemary
si fa una grassa
risata: Non scherziamo.
Non ho mai pensato di
compiere imprese straordinarie,
ma piccole cose fatte con
amore. Sarà. Ma intanto suor Rosemary
Nyirumbe, pur operando da
sempre fuori dai riflettori mediatici,
in quel desolato e tormentato buco
d’Africa che è il Nord Uganda, è già stata
nominata nel 2007 “eroe dell’anno”
dalla Cnn e inserita nel 2014 dal settimanale
Time tra le cento persone più
influenti del mondo, unica cattolica
assieme a papa Francesco.
Sessantadue anni, religiosa
ugandese appartenente alla congregazione
delle suore del Sacro Cuore
di Gesù, fondata da un comboniano
trentino, ostetrica, laureata e con master
in Etica dello sviluppo, Suor Rosemary
è diventata suora a soli 15 anni,
«per amore dei bambini», confessa.
«Preferisco praticare al predicare» è
uno dei suoi motti. E la sua vita è un
contagioso inno alla Carità.
La sua è una storia da film. Per ora
negli Stati Uniti le hanno dedicato una
bella biografia, Sewing hope, ora tradotta
in italiano dalla Emi (“Rosemary
Nyirumbe. Cucire la speranza”, di Reggie
Whitten e Nancy Henderson) e un
documentario a cui ha prestato la voce
il premio Oscar Forest Whitaker.
Quella di suor Rosemary è la
storia di una donna africana coraggiosa
e determinata che opera nel
contesto del conflitto brutale acceso
dal terrorista Joseph Kony, capo dell’Lra,
l’Esercito di resistenza del Signore.
Una guerra civile che ha insanguinato
l’Uganda dagli anni ’80, dopo la fine
del feroce regime del dittatore Amin,
e che ha provocato 30 mila morti, due
milioni di profughi e centomila minori
rapiti e trasformati in baby soldati.
La piccola grande suora ugandese,
mettendo a repentaglio più d’una
volta la vita, è riuscita a scrivere una
pagina di speranza e pacificazione in
questa terra martoriata al confine col
Sud Sudan e la Repubblica democratica
del Congo. Come? Andando a cercare
nella savana, accogliendo, dando
istruzione, lavoro e dignità a tantissime
giovani donne che erano state
rapite dai miliziani dell’Lra, schiavizzate,
violentate e trasformate in
automi, addestrati solo a uccidere.
«Ho visto coi miei occhi le violenze
dei miliziani su queste ragazze, sui
bambini», dice. «Io stessa sono stata
una loro vittima. E mi sono salvata
per miracolo. Io e le mie consorelle ci
siamo dovute abituare a vivere nella
paura. Ma neanch’io immaginavo
l’orrore vissuto da queste ragazze segregate
per anni nella foresta».
A Gulu, nella scuola professionale
femminile di Santa Monica, da lei fondata
nel 2001, con laboratori di cucito
e di cucina, sono passate oltre duemila
ragazze con i figli nati dai “matrimoni”
imposti dai guerriglieri di Kony. Qui
hanno trovato un rifugio e la possibilità
di ricostruire dalle macerie una vita
nuova. «Io ho solo dato affetto, un
abbraccio caldo, senza fare domande,
e la possibilità di un riscatto esistenziale», spiega la religiosa. «La cosa
più tragica è che queste donne sono doppiamente vittime, perché anche
una volta fuggite dai loro torturatori,
non sono più accettate nelle loro comunità,
neanche dalle loro famiglie».
Molte di loro ci hanno messo anni
per confidare quanto subìto. Come
Sharon, che aveva solo 13 anni quando
fu rapita e che fu costretta a uccidere a
coltellate la sorellina. Oggi è “risorta”:
lavora a Santa Monica e insegna cucito
alle nuove allieve. O come Ellen, la bella
ragazza che era stata la “moglie” del
sanguinario Kony, che, arrivata solo
due anni fa e finito il corso di sartoria
sarebbe diventata portavoce delle ex
sequestrate e presidente di un’associazione
in difesa dei diritti delle donne
vittime della violenza.
Il passaggio più difficile per queste
ragazze? «Riuscire a scaricare questo insopportabile
senso di colpa, il terribile
fardello del passato. Un passato che non
viene perdonato dagli altri e neanche da
loro stesse. E anche oggi, a guerra finita,
il problema maggiore non è la povertà
della mia gente», aggiunge la religiosa,
«ma il carico psicologico che si portano
addosso queste donne sfortunate, che di
notte sentono ancora gli spari e l’odore
del sangue».
«Il nostro lavoro è solo all’inizio»,
ammette la religiosa, ma il suo impegno
e quello delle consorelle ha, comunque,
contagiato già tanti volontari
e benefattori in giro per il mondo.
Primi tra i quali alcuni gruppi italiani
provenienti da Magenta e trentini del
paesino di Nago. Negli Stati Uniti sono
sorte associazioni no profit, come la
Pros for Africa fondata dall’avvocato
Reggie Whitten, che sostengono suor
Nyirumbe, la quale nel frattempo non
s’è fermata. Oggi le scuole e gli orfanotrofi sono diventati tre: Santa Monica,
Thorit (nel Sud Sudan) e Atiak. E adesso
ha aperto sempre nel Nord Uganda una
scuola di agraria e altre case-famiglia.
L’infaticabile suora ugandese s’è
pure inventata una linea di borse da
donna prodotte dalle abili mani delle
sue ragazze a Santa Monica: borse
speciali come le loro produttrici, e uniche
al mondo perché realizzate con un
singolare materiale di scarto, le linguette
d’alluminio delle lattine. Pezzi unici
che grazie alla Sisters United, fondata da
Rosemary, saranno commercializzate in
tanti Paesi.
«Da un mucchio di rifiuti nasce
una cosa bella. È un po’ la storia di queste
donne: da un rifiuto della società
nasce una persona nuova», afferma
convinta suor Nyirumbe.
E con orgoglio mette in mostra
la borsa modello “Rosemary” cucita
da Jane: un migliaio di linguette assemblate
in una settimana di lavoro.
Valore della borsa? «Inestimabile»,
risponde con passione subito la suora
ugandese: «Un pezzo di dignità di una
giovane africana».