Un’icona di Roma in un’icona di Milano: incontriamo Sabrina Ferilli nella storica pasticceria Sant Ambroeus, a due passi dal Duomo: «In realtà, io adoro Milano. Per carattere sono molto rigorosa: mi piacciono le città dove le cose funzionano. Nel caos non mi trovo molto bene. E poi posti come questi non sono semplici bar, sono luoghi che conservano un’umanità antica».
In L’amore strappato lei interpreta la parte di Raffaella Lucanto. Conosceva già questa storia?
«Sì, avevo letto il libro di Angela. Durante le riprese non ho voluto incontrarli, perché non volevo farmi influenzare nell’interpretazione. L’ho fatto ora ed è stato molto emozionante vedere la loro dignità. Salvatore, il padre, mi ha detto che la sofferenza maggiore l’hanno ricevuta dalle persone più vicine: amici, colleghi di lavoro che da quando lui è stato accusato hanno fatto terra bruciata attorno a loro».
Qual è l’aspetto di questa vicenda che l’ha colpita di più?
«L’impotenza di queste persone che non avevano fatto niente. Sopra di loro si è innescato un meccanismo fatto di errori giudiziari, di burocrazia, di gente sorda a ogni buonsenso che ha iniziato a travolgerli: chiunque decideva al posto loro. Un meccanismo assurdo, come dimostra il fatto che per fare riavere il loro cognome alla figlia sono stati costretti ad adottarla».
Presentando questa fiction in varie occasioni si è commossa…
«I torti, le sofferenze che hanno subìto mi sono entrate dentro. E poi ho pensato che quanto hanno vissuto poteva capitare a me, ai miei fratelli che hanno figli, a chiunque altro».
Lei come si sarebbe comportata se fosse stata davvero al posto della madre di Angela?
«Come lei. Avrei lottato, ma sempre nell’ambito della legalità. Non credo nella giustizia fai da te».
Cosa pensa allora della nuova legge sulla legittima difesa?
«Non ce n’era assolutamente bisogno. Nei Paesi dove sono adottati provvedimenti simili, i crimini sono aumentati».
Lei come reagisce alle ingiustizie?
«Non ne ho subìte tante, forse perché ho condotto sempre una vita molto riservata e ho cercato di circondarmi di persone migliori di me».
Nell’animo si sente più avvocato o giudice?
«Avvocato, perché mi piace l’idea di dare a chiunque la possibilità di riscattarsi. Un uomo non può identificarsi con il reato che ha commesso: è troppo riduttivo».
Oggi però viviamo in una società piena di giudici senza toga che dal loro computer sputano sentenze…
«Lo so ed è terribile. Solo che quando lo fai notare, c’è sempre qualcuno che ti fa passare per sprovveduta. “Ma che male potrà mai fare un selfie un po’ volgare, o una foto che inneggia al fascismo?”, ti dicono. E invece sono spie di una disgregazione culturale in atto di costume, di lingua, di rispetto».
È per questo motivo che lei non si vede molto sui social?
«Ho solo una pagina Facebook che non gestisco e che uso solo per far conoscere le mie attività professionali».
È vero che è rimasta legatissima ai suoi genitori?
«Sono legatissima alla mia famiglia in generale. La prima cosa che faccio al mattino è telefonare a papà. Lui è come me. Appena si alza, legge tutti i giornali. Perciò mi sveglio alle sei e, quando ho finito, lo chiamo e ci confrontiamo sui fatti del giorno. Facciamo una specie di rassegna stampa e alla fine siamo sempre d’accordo sulle valutazioni».
Suo padre è stato un funzionario del Pci. Com’è stato crescere in un ambiente così?
«A casa mia erano tutti, come si direbbe oggi, “cattocomunisti”. Mi ricordo mia nonna che indossava due medagliette: in una c’era la Madonna e nell’altra il simbolo della falce e martello. Gente integra, molto severa, che ha contribuito a ricostruire il Paese dalle macerie della guerra».
Le hanno trasmesso anche la fede?
«Sì. Sono amica di preti e frati straordinari, conosco anche la realtà della mia parrocchia. Non vado a Messa, ma due o tre volte alla settimana sento la necessità di entrare in chiesa».