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giovedì 23 gennaio 2025
 
l'intervista
 

Vinicio Capossela: «Esploro la mia terra del Sud alla ricerca del sacro»

23/07/2016  Il lavoro, l'epopea degli sconfitti, la religiosità: nel suo ultimo album, "Canzoni della Cupa", il cantautore prosegue il suo viaggio nella cultura del Meridione, dall'Irpinia al Salento. E sulla sua fede rivela: «A differenza di San Paolo, che sulla via di Damasco si è rialzato, io sono rimasto col piede impigliato a terra. Mi affascina il linguaggio biblico»

Da Vinicio Capossela in fondo te l’aspetti una cantata sulla misericordia. È nel suo ultimo album, Canzoni della Cupa, disco doppio (e meraviglioso) di ventotto canzoni, diviso in due parti, Polvere e Ombra, che si apre con il canto di lavoro Femmine e si chiude con Il treno, un brano dagli echi morriconiani e quasi lugubri a sigillare la fine amara di un viaggio immaginato diverso.

Dopo essere andato per mare alla caccia di Moby Dick (Marinai, profeti e balene, 2011), il cantante-esploratore che rifiuta le frontiere s’è fermato sulla terraferma. Quella del suo Sud (Capossela è originario di Calitri, Alta Irpinia, terra montuosa nella provincia di Avellino dov’è nato suo padre Vito), bruciato dal sole e dalle sue eterne contraddizioni: il paesaggio segnato da pannelli fotovoltaici e pale eoliche in nome, va da sé, dell’energia pulita; i piccoli centri dell’interno che inesorabilmente si spopolano; le disuguaglianze sociali e lo sfruttamento dei lavoratori nei campi. «Padrone mio ti voglio arricchire / come un cane voglio faticare», recita un sonetto di Matteo Salvatore, il più grande cantautore folk che l’Italia abbia mai avuto e che Capossela ha riscoperto in questo disco, portando alla luce le sue canzoni in dialetto foggiano, una lingua ostica e aguzza come pietre per narrare l’epopea degli sconfitti, tra arguzie, serenate e canti di lavoro. Se Polvere parla di terra, lavoro, sole, vita, Ombra è il lato del mito, della religiosità ancestrale, delle creature antropomorfe della Cupa e delle processioni religiose. Autentico gioiello nel gioiello, il brano L’angelo della luce, dedicato a san Michele Arcangelo al cui cospetto, sul Gargano, giungevano migliaia di pellegrini. «L’arcangelo della luce», canta Capossela, «è volato di testa in giù / si è sporcato dentro alla vita, / e le ali non volano più».

Che cosa significa?

«A Napoli c’è un dipinto di Caravaggio dedicato alle Sette opere di misericordia dove al centro c’è un angelo che precipita dal cielo facendo vedere che per compiere le opere di misericordia bisogna sporcarsi le ali, contaminarsi con l’umano fino a perdere il cielo. Forse è una figura che rimanda a Cristo stesso che si è sporcato le ali e anche le mani per far guadagnare il cielo agli uomini».

Lei crede?

«Non ho la fede. San Paolo sulla via di Damasco ha avuto l’abbaglio decisivo e dopo essere caduto da cavallo si è rialzato. A me è rimasto il piede impigliato e sono ancora a terra. Però mi ha sempre affascinato il linguaggio biblico, perché lo trovo molto efficace per parlare della condizione umana».

Cos’è la Cupa?

«La Cupa è dove non batte il sole e quindi il luogo dove c’è spazio per i mezzi toni, gli spettri, le ombre, per tutto quello che non possiamo spiegarci razionalmente. Leopardi diceva che le cartine geografiche avevano ristretto il mondo, la Cupa è ciò che ingigantisce il mondo perché non puoi definirlo con nettezza. Al Sud c’è sempre un sentiero della cupa».

la cover di Canzoni della Cupa, l'ultimo disco di Vinicio Capossela uscito il 6 maggio scorso e composto da due parti, Polvere, con il tour estivo in corso adesso, e Ombra, che andrà nei teatri dopo l'estate
la cover di Canzoni della Cupa, l'ultimo disco di Vinicio Capossela uscito il 6 maggio scorso e composto da due parti, Polvere, con il tour estivo in corso adesso, e Ombra, che andrà nei teatri dopo l'estate

Qual è la sua preferita?

«Difficile dire, sono tutte invenzioni straordinarie. Ciò che oggi cerchiamo nella psicanalisi o nella scienza la cultura popolare lo conosce e gli ha dato pure un nome. Ho un debole per il pumminale, che è il modo paesano di chiamare il licantropo. Anzitutto per il dolore della trasformazione, la fatica di cambiare pelle. La licantropia è un tratto che abbiamo tutti noi, perché a volte ci trasformiamo in bestie».

Perché questo disco ha avuto una gestazione così lunga?

«Le prime canzoni le ho registrate nel 2003 dopo aver scoperto l’opera di Matteo Salvatore, il più straordinario cantante della fame, della disuguaglianza e dello sfruttamento del latifondo meridionale. Le sue canzoni hanno una forza particolare come certi blues. Se all’inizio mi interessava solo il folclore, con il passare del tempo mi interessava indagare il mondo della cultura popolare dove la cosa sostanziale era l’immanenza del sacro».

L’album si chiude con Il treno, un brano amaro. Qual è il significato?


«È il treno della storia che ha messo fine a un Paese fatto di paesi e comunità. Il treno che negli anni Cinquanta hanno preso quelli della generazione di mio padre per emigrare. Il destino delle terre dell’interno è lo stesso da Nord a Sud: spopolarsi e scomparire. L’immigrazione è un fenomeno imponente che noi guardiamo solo da un lato, quello della gente che arriva e va accolta. Non pensiamo mai ai paesi che si svuotano e vengono abbandonati per sempre». 

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