Da Vinicio Capossela in fondo te l’aspetti una cantata sulla misericordia.
È nel suo ultimo album, Canzoni
della Cupa, disco doppio (e meraviglioso)
di ventotto canzoni, diviso in
due parti, Polvere e Ombra, che si apre
con il canto di lavoro Femmine e si chiude con Il
treno, un brano dagli echi morriconiani e quasi
lugubri a sigillare la fine amara di un viaggio
immaginato diverso.
Dopo essere andato per mare alla caccia di
Moby Dick (Marinai, profeti e balene, 2011), il
cantante-esploratore che rifiuta le frontiere s’è
fermato sulla terraferma. Quella del suo Sud
(Capossela è originario di Calitri, Alta Irpinia,
terra montuosa nella provincia di Avellino
dov’è nato suo padre Vito), bruciato dal sole e
dalle sue eterne contraddizioni: il paesaggio
segnato da pannelli fotovoltaici e pale eoliche
in nome, va da sé, dell’energia pulita; i piccoli
centri dell’interno che inesorabilmente si spopolano;
le disuguaglianze sociali e lo sfruttamento
dei lavoratori nei campi.
«Padrone mio ti voglio arricchire / come un
cane voglio faticare», recita un sonetto di Matteo
Salvatore, il più grande cantautore folk
che l’Italia abbia mai avuto e che Capossela ha
riscoperto in questo disco, portando alla luce
le sue canzoni in dialetto foggiano, una lingua
ostica e aguzza come pietre per narrare l’epopea degli sconfitti, tra arguzie, serenate e canti
di lavoro. Se Polvere parla di terra, lavoro, sole,
vita, Ombra è il lato del mito, della religiosità
ancestrale, delle creature antropomorfe della
Cupa e delle processioni religiose. Autentico
gioiello nel gioiello, il brano L’angelo della luce,
dedicato a san Michele Arcangelo al cui cospetto,
sul Gargano, giungevano migliaia di pellegrini.
«L’arcangelo della luce», canta Capossela, «è
volato di testa in giù / si è sporcato dentro alla
vita, / e le ali non volano più».
Che cosa significa?
«A Napoli c’è un dipinto di Caravaggio dedicato
alle Sette opere di misericordia dove
al centro c’è un angelo che precipita dal cielo
facendo vedere che per compiere le opere di
misericordia bisogna sporcarsi le ali, contaminarsi
con l’umano fino a perdere il cielo. Forse
è una figura che rimanda a Cristo stesso che si
è sporcato le ali e anche le mani per far guadagnare
il cielo agli uomini».
Lei crede?
«Non ho la fede. San Paolo sulla via di Damasco
ha avuto l’abbaglio decisivo e dopo essere
caduto da cavallo si è rialzato. A me è rimasto
il piede impigliato e sono ancora a terra. Però
mi ha sempre affascinato il linguaggio biblico,
perché lo trovo molto efficace per parlare della
condizione umana».
Cos’è la Cupa?
«La Cupa è dove non batte il sole e quindi il
luogo dove c’è spazio per i mezzi toni, gli spettri,
le ombre, per tutto quello che non possiamo
spiegarci razionalmente. Leopardi diceva che le
cartine geografiche avevano ristretto il mondo,
la Cupa è ciò che ingigantisce il mondo perché
non puoi definirlo con nettezza. Al Sud c’è sempre
un sentiero della cupa».
la cover di Canzoni della Cupa, l'ultimo disco di Vinicio Capossela uscito il 6 maggio scorso e composto da due parti, Polvere, con il tour estivo in corso adesso, e Ombra, che andrà nei teatri dopo l'estate
Qual è la sua preferita?
«Difficile dire, sono tutte invenzioni straordinarie. Ciò che oggi cerchiamo nella psicanalisi o nella scienza la cultura popolare lo conosce e gli ha dato pure un nome. Ho un debole per il pumminale, che è il modo paesano di chiamare il licantropo. Anzitutto per il dolore della trasformazione, la fatica di cambiare pelle. La licantropia è un tratto che abbiamo tutti noi, perché a volte ci trasformiamo in bestie».
Perché questo disco ha avuto una gestazione così lunga?
«Le prime canzoni le ho registrate nel 2003 dopo aver scoperto l’opera di Matteo Salvatore, il più straordinario cantante della fame, della disuguaglianza e dello sfruttamento del latifondo meridionale. Le sue canzoni hanno una forza particolare come certi blues. Se all’inizio mi interessava solo il folclore, con il passare del tempo mi interessava indagare il mondo della cultura popolare dove la cosa sostanziale era l’immanenza del sacro».
L’album si chiude con Il treno, un brano amaro. Qual è il significato?
«È il treno della storia che ha messo fine a un Paese fatto di paesi e comunità. Il treno che negli anni Cinquanta hanno preso quelli della generazione di mio padre per emigrare. Il destino delle terre dell’interno è lo stesso da Nord a Sud: spopolarsi e scomparire. L’immigrazione è un fenomeno imponente che noi guardiamo solo da un lato, quello della gente che arriva e va accolta. Non pensiamo mai ai paesi che si svuotano e vengono abbandonati per sempre».