Il 13 novembre del 2015 la Francia
è sotto attacco: il terrorismo insanguina
Parigi con una serie di
attentati che colpiscono diversi
bersagli della città. Nel teatro
Bataclan è una carnecina: fra le
93 vittime c’è Hélène Muyal, 35 anni.
Suo marito, Antoine Leiris, giornalista
radiofonico francese di 34 anni,
resta solo con il loro bambino, Melvil,
appena 17 mesi. Il 16 novembre, dopo
aver visto per l’ultima volta sua moglie
nell’Istituto medico legale, Antoine affida i propri pensieri e le proprie
emozioni alla scrittura e, quasi di
getto, pubblica in un post su Facebook
una lettera aperta ai terroristi. «Se
vi odiassi vi farei un regalo», scrive
Antoine, «è quello che cercate, ma
rispondere all’odio con la collera
sarebbe cedere alla stessa ignoranza
che ha fatto di voi quello che siete.
Volete che abbia paura, che guardi i
miei concittadini con occhi diffidenti,
che sacrifichi la mia libertà per la
sicurezza. Partita persa. Il giocatore
continua a giocare». L’effetto sui social
è immediato e dirompente. La
lettera, “Non avrete il mio odio”, rimbalza
da una parte all’altra della Rete
suscitando riflessioni e discussioni.
Nei giorni seguenti, Leiris continua
a scrivere, la parola è l’unico appiglio
che gli resta per non crollare e
andare avanti. Da quella lettera, che
ha fatto il giro del mondo, è scaturito
un libro, Non avrete il mio odio (Corbaccio):
il racconto, in forma di diario
intimo, della vita quotidiana di un
uomo come tanti altri, di un giovane
padre rimasto solo con suo figlio e di
una grande storia d’amore.
Antoine, sono passati sei mesi
dalla tragedia del teatro Bataclan.
Com’è oggi la quotidianità per lei e
suo figlio Melvil?
«Di fatto la nostra vita è ripresa in
modo molto normale. Ogni mattino
accompagno Melvil al nido, lo vado
a riprendere alle 16.30, nelle ore in
cui sono da solo faccio altre cose, per
esempio incontro dei giornalisti. È la
quotidianità che vivono tutti gli altri
genitori. Le persone più care mi sono
rimaste vicine. Continuiamo a parlare
della tragedia, ma anche di altri temi.
Non lavoro più come giornalista, adesso
faccio il padre a tempo pieno. Mi
sono preso un periodo di stacco, sicuramente
continuerò a scrivere».
Come mai ha deciso di trasformare
la lettera in un libro?
«La pubblicazione è avvenuta per
caso: nel primo periodo dopo la morte
di Hélène tante persone venivano a
trovarmi a casa la sera, quando Melvil
era a letto. Una sera è venuta un’amica
che lavorava con me alla radio. Sapendo
che è ferrata in letteratura le
ho mostrato quanto stavo scrivendo.
Mi ha spiegato che anche lei aveva lasciato
la radio e cominciato a lavorare
in una casa editrice, quella che ha poi
pubblicato il libro».
Quando ha postato la lettera era
pronto alle conseguenze? Si aspettava
tutta questa popolarità?
«Le conseguenze sono state assolutamente
impreviste, non calcolate e
non è stato semplice gestirle: in quei
giorni dovevo pensare a mio figlio,
pensavo ad Hélène, avevo una marea
di cose pratiche da sbrigare. Mi è
piombato addosso qualcosa che non
avevo in alcun modo cercato. Mi sono
domandato cosa potessi fare e ho avuto
anche la tentazione di sparire dal sistema
mediatico, ritornare all’anonimato.
Secondo i mass media io volevo
condividere con tutto il mondo quello
che mi era successo. Invece ero semplicemente
una persona come tante
altre, un uomo normale che ha perso
l’amore della sua vita e che si ritrova a
crescere da solo un bambino. Nel libro
la lettera ritrova la sua giusta posizione:
quella di un momento della mia
vita compresso all’interno di tutti gli
altri eventi».
Nella lettera lei scrive che i terroristi
non avranno neppure l’odio di
suo figlio Melvil.
«Oggi penso di essere stato un po’
presuntuoso a fare quella dichiarazione.
Farò di tutto affinché Melvil
abbia gli strumenti per percorrere il
suo cammino con lucidità, ma effettivamente
sarà lui a scegliere in modo
autonomo la sua strada».
Dopo gli attentati del 13 novembre
2015 come e quanto è cambiata la
vita di Parigi, nella sua percezione?
«Parigi non è cambiata, si è risollevata
molto in fretta. Come accade alle
città vittime di attentati, la vita ha ripreso
a scorrere normalmente. E questo
fatto da un lato ti disturba molto
perché ti domandi come sia possibile
che il mondo non si sia fermato proprio
nel momento in cui tu sei devastato
dalla sofferenza. Certo, dietro la
facciata si nasconde la paura: quando
entri in un locale è inevitabile chiederti
se quello può essere un bersaglio
per i terroristi. Ma è giusto che la vita
sia ricominciata e che si continui ad
andare avanti».