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martedì 17 settembre 2024
 
silvia romano
 

Attilio Ascani: «Per le Ong la sicurezza dei volontari viene prima di tutto»

11/05/2020  «In tante zone dell'Africa oggi gli europei sono target appetibili. Il modo migliore per proteggere un cooperante è inserirlo nella rete della comunità locale, delle persone sul posto che lo aiutano, lo affiancano e percepiscono quando c'è un pericolo», osserva l'ex direttore della Focsiv, attualmente coordinatore delle attività in Italia di Cvm-Comunità volontari nel mondo, attiva in Etiopia e Tanzania.

Incontro in Etiopia di un'associazione di lavoratrici domestiche con la partecipazione di Cvm.
Incontro in Etiopia di un'associazione di lavoratrici domestiche con la partecipazione di Cvm.

(Foto sopra: Attilio Ascani, primo a sinistra, al Festival della virtù etica)

«Lavorare come operatorio umanitario in Africa richiede profonda conoscenza e grandi competenze, perché i rischi sono molto aumentati.  Se negli anni Ottanta in tanti Paesi africani rischiavi il furto del ladro che ti entra in casa o che ti colpisce per la strada per derubarti, ma in generale, culturalmente, era diffuso un certo rispetto per l’ospite, il bianco, oggi come europeo e bianco sei un target appetibile, un obiettivo, un portafoglio pieno che gira per la strada». Come Ong non possiamo disporre di macchine imponenti di sicurezza, dobbiamo sopperire alla carenza di mezzi con l’arma della conoscenza del territorio in cui ci troviamo a operare e della comunità locale nella quale ci andiamo a inserire». Attilio Ascani conosce a fondo l’Africa, sa bene di cosa si parla quando si parla di lavoro delle Ong sul campo. Coordinatore per le attività in Italia di Cvm-Comunità volontari per il mondo, Ong marchigiana attiva da quarant’anni in Etiopia e Tanzania, per alcuni anni è stato direttore della federazione Focsiv e, ancora prima, volontario in Etiopia per dodici anni. E’ partito per la prima volta per Addis Abeba nel 1980. ha vissuto là con sua moglie, due dei loro tre figli sono nati in Africa. Ha fatto esperienza dell’Etiopia in periodi molto caldi, difficili, in cui essere sul campo significava essere consapevoli di accettare dei rischi. All’indomani del rientro in Italia di Silvia Romano, Ascani coglie l’occasione per raccontare, sulla base della sua esperienza personale, cosa significhi per una Ong operare in contesti particolarmente difficili, a volte pericolosi per i propri operatori e volontari.

«La prima considerazione che dobbiamo fare è sulla salvaguardia delle persone che mandiamo sul campo. Questo avviene non creando delle sovrastrutture ma assicurando un buon radicamento nel territorio e nel contesto. L’espatriato deve essere sempre inserito all’interno di una rete di persone locali che hanno una conoscenza del territorio che evidentemente il volontario, per quanto approfondita sia la sua preparazione, da solo non può avere. Questa rete è ciò che soprattutto garantisce la sicurezza». Una protezione che, chiarisce Ascani, vale non solo per gli espatriati ma nella stessa misura per gli operatori locali, che sono i primi a correre dei rischi in contesti dove ci sono tensioni o conflitti 

«L’europeo, anche dopo anni di esperienza, non percepisce il pericolo come può farlo un locale, non ha “l’orecchio a terra”. La gente del posto sì, può percepire l’arrivo di una situazione strana e può avvertire il cooperante e suggerirgli di andare via il prima possibile. E i volontari più giovani vanno affiancati e guidati da chi ha più esperienza alle spalle». E’ fondamentale dunque, creare un tessuto di fiducia, con le autorità locali in primis, poi le comunutà del posto con cui si va ad operare.

«In situazioni dove l’allerta aumenta si creano modalità di gestione del rischio migliori. Faccio un esempio: In Etiopia nel 2018-2019 abbiamo avuto situazioni di instabilità e nessun espatriato poteva muoversi senza aver prima telefonato agli uffici periferici per verificare l’agibilità delle strade e la sicurezza degli spostamenti». Essenziale è poi il collegamento con le altre Ong operanti sul posto, italiane e straniere per sapere dove sono localizzati i problemi e i rischi. «Raccomandiamo sempre ai nostri colleghi sul campo di dedicare tempo per costruire e mantenere relazioni con le altre organizzazioni, perché così si condividono esperienze e informazioni. A volte basta una telefonata per confermare una notizia, avere una dritta, una segnalazione. Il confronto è sempre importantissimo». 

Il volontario, comunque, non è mai solo. Nemmeno quando capita che si trovi a operare in un posto senza l’affiancamento di altri espatriati. «In quel caso deve essere sempre inserito all’interno di un team composto da persone e operatori locali che lo proteggono, lo informano, lo aiutano, in modo tale da ridurre i possibili rischi». In questo momento, spiega Ascani, Cvm ha due cooperanti da soli sul posto, uno in Etiopia, l’altra in Tanzania, a causa della pandemia del Covid-19 che ha cambiato la situazione. «In Etiopia avevamo due operatori, quando è scoppiata la pandemia noi abbiamo chiesto loro di rientrare perché la sicurezza delle persone è la cosa più importante. Una persona ora è in Italia. L’altro operatore ha deciso di restare là. Ma sia lui che la responsabile in Tanzania - anche lei ha scelto di rimanere sul posto - sono inseriti in un team locale, sono contattabli da parte nostra 24 ore su 24, si trovano in location dove hanno sempre connessione Internet, telefono, possiblità di movimento e circolazione di informazioni. Abbiamo sviluppato un protocollo di misure per garantire la loro protezione. Nelle regioni molto isolate e difficilmente accessibili questo diventa più difficile. I missionari, ad esempio, operano in aree disagiate, ma hanno una conoscenza del territorio che permette loro di essere là». 

E’ chiaro, sottolinea Ascani, che il rischio zero non esiste, l’imprevisto può sempre accadere. Non è possibile prevenire qualunque tipo di incidente, ma si cerca di ridurre al massimo la potenzialità del rischio, garantendo la capacità di intervenire laddove sia possibile. «E in un continente come quello africano stabilire parametri di sicurezza è complicato, in posti come la Nigeria dei fondamentalisti di Boko Haram, la Somalia con gli integralisti di Al Shabaab, con la loro capacità di penetrazione e movimento, decidere se un posto sia rischioso o meno non è semplice». 

Lui stesso, tanti anni fa, in Etiopia, ha vissuto una situazione potenzialmente rischiosa. «Nel 1991 io e la mia famiglia ci siamo trovati nel mezzo della guerra civile. Avevamo i figli molto piccoli, rispettivamente di 3 anni  e di 6 mesi, io e mia moglie ci trovavamo in luoghi differenti, io ad Addis Abeba, lei in una missione nel Sud, con i bambini. Il Cvm ci aveva chiesto insistentemente di rientrare. Noi abbiamo deciso liberamente di restare: non volevamo abbandonare al loro destino i colleghi etiopi, con le loro famiglie. Venire via ci sembrava un po’ una scelta da “privilegiati”, di fronte a collaboratori che non potevano fare la stessa cosa perché non avevano un altro posto dove andare.  Oggi, col senno di poi, sappiamo che abbiamo corso dei rischi. Ma allora eravamo consapevoli di non essere dei target diretti: nessuno in quel momento ce l’aveva con i bianchi. Anche questa valutazione ci ha indotto a restare. Oggi non posso dire che sia stata la cosa più saggia che abbia fatto nella mia vita, ma è andata bene».

 
 
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