Antonio Di Pietro (foto Ansa).
«Io sto dalla parte degli agricoltori». Non ha dubbi Antonio Di Pietro, ex magistrato e politico che, nel suo amato Molise, a Montenero di Bisaccia, dove si è ritirato, lavora la terra, quasi ventiquattro ettari lasciatigli dal padre, dove produce olio, vino, grano e orzo (“ma pratichiamo la rotazione delle colture, stando attenti ai cinghiali”). La protesta spontanea degli agricoltori contro la Politica agricola comune (Pac) e il Green Deal in questi giorni infiamma l’Italia e l’Europa con presidi e cortei. Sugli striscioni il malcontento di chi si spacca la schiena nei campi e non vede luce in fondo al tunnel: “Stop alle follie dell’Europa”, “Basta terreni incolti”, “Stop import sleale”, “Prezzi giusti per gli agricoltori”, “Cibo sintetico, i cittadini europei non sono cavie”.
Gli agricoltori, già provati dal rincaro del costo della vita, sono scesi con i loro trattori nelle città, fino a Bruxelles, all’Europarlamento. Ora, nel nostro Paese, puntano su Roma. Si chiede il ripensamento delle misure sulla sostenibilità del settore agroalimentare. Tanta carne al fuoco: dalla tassazione alla speculazione lungo la filiera, dall’aumento del prezzo del gasolio agricolo all’obbligo di destinare almeno il 4% dei terreni coltivabili a funzioni non produttive, dalla concorrenza delle importazioni più economiche al no alla carne coltivata e alla farina di grilli. All’Italia gli agricoltori chiedono anche la proroga degli sgravi Irpef e la tutela del Made in Italy.
Di Pietro, lei ora si dovrebbe godere il suo buen retiro in Molise e la sua buona pensione, invece è “salito” sul trattore. Perché lo ha fatto?
Ho dato la mia solidarietà alla “protesta”, anche se non mi piace usare questo termine, in quanto la ritengo utile per il Paese e necessaria per gli agricoltori per far sapere alle istituzioni il disagio in cui versano, soprattutto la piccola e media impresa agricola. Ho partecipato attivamente con il gruppo della mia area, nel senso che ci troviamo e discutiamo dei temi caldi nel rispetto delle regole, ma il mio trattore è a Montenero non a Bruxelles.
Non si tratta di una protesta secondo lei?
Non è una protesta ma uno stimolo. Non deve essere una manifestazione “contro” ma “per”. Se la buttiamo anche stavolta in politica non andiamo da nessuna parte. Servono sinergie e senso di responsabilità. Questa è una di quelle poche manifestazioni che riscuote il consenso della cittadinanza, pure se provoca qualche disagio. Chi sciopera non è lo scioperante della domenica o del venerdì pomeriggio, ma sono quei lavoratori che hanno tanto da fare e non ce la fanno più perché gli alti costi di produzione superano i ricavi.
È questo il fil rouge del malcontento?
È il problema urgente e il primo, riguarda tutti i manifestanti: se l’impresa agricola non ha un ricavo a fine anno, chiude. I motivi del malessere sono poi molteplici e differenziati, alcuni specifici di settore. È chiaro che chi fa allevamento di animali ha esigenze diverse da chi piuttosto semina grano o raccoglie olive. Ci sono dei problemi di tipo europeo, soprattutto legati alla nuova Pac, con cui si sono stabilite delle regole comuni, molto restrittiva per le esigenze degli agricoltori, e altri di tipo locale come, per esempio, quelli relativi all’area in cui mi trovo, dove manca un sistema di irrigazione così come una qualsiasi attenzione alle diversità della produzione. L’Unione europea ha introdotto gli obblighi di tenere a riposo una parte del proprio terreno e di fare la rotazione colturale nei seminativi, ma in molte aree del nostro Paese questo è impossibile, soprattutto considerando la piccola e media impresa. Non si possono trattare allo stesso modo specificità differenti, altrimenti è come se vivessimo tutti nello stesso territorio, indipendentemente che sia montano, collinare o di pianura. Spero, anche, in una modifica di quanto previsto nell’ultima finanziaria in merito alla tassazione sui terreni: gli sgravi Irpef, cancellati, andrebbero riconfermati.
E poi il problema delle multinazionali…
Fanno il prezzo secondo i propri comodi mettendo fuori gioco il piccolo e medio agricoltore, che non riesce a essere competitivo. Se l’Unione europea ci impone delle regole stringenti con il Green Deal, ma queste non vengono rispettate dai paesi terzi da cui importiamo prodotti a prezzi stracciati senza alcun controllo all’origine, è chiaro che non c’è gara.
Come il caso del grano importato massicciamente dal Canada, dove si coltiva con l’uso del glifosato, secondo modalità vietate in Italia…
Io sono tra quelli che auspicano che sia disposto l’embargo nei confronti di quelle importazioni di materie prime o prodotti che non seguono le regole europee. Contesto la cattiva concorrenza. Produrre un bene a noi costa molto.
Non che a livello di filiera le cose vadano meglio…
Nel passaggio fra chi fa un immane sforzo per produrre e l’ultimo tassello della catena che colloca il prodotto sul mercato, il rincaro è sproporzionato. Dobbiamo porci la domanda di lungo periodo: in quale mondo vogliamo vivere? Questa è una scelta etica. Io credo che un mondo legato alla natura e ai suoi ritmi, e al rispetto, così come ce lo ha regalato il Padre Eterno, sia il migliore possibile, imparagonabile a uno artificiale. Non dimentichiamoci che gli agricoltori svolgono anche una funzione ambientale e di sicurezza perché coltivando il suolo prevengono frane e smottamenti. Andrebbero ringraziati.
Ci sono in gioco, forse, interessi economici planetari di qualche miliardario pronto a speculare acquistando ricchi terreni agricoli, magari a prezzi stracciati, dalla povera gente ridotta in povertà? Sono più diretta: c’è in atto una “guerra” economica sotto traccia?
Che ci siano gli speculatori e che le grandi multinazionali, soprattutto i fondi, si stiano appropriando di mezzo mondo è vero, che chi se ne approfitta vada combattuto è altrettanto vero, ma da qui a dire che l’Unione europea lavori per loro o che sia eterodiretta da Mr. X mi rifiuto di crederlo. Stiamo parlando di una istituzione che è rimasta nelle sue intenzioni ancora piccola. Io immaginavo e continuo a immaginare gli Stati Uniti d’Europa, che avrebbero una forza, una voce anche istituzionale unitaria, non un’unione europea, che attualmente è più che altro un’unione economica.
Cosa si dovrebbe fare e a che livello per risolvere la situazione?
Servono interventi europei, nazionali e territoriali. Al primo livello, il Green Deal può essere un’opportunità ma deve essere rivisto: non si può pretendere che soltanto attraverso il mondo agricolo giunga quella pace ecologica che tutti auspichiamo. E servono investimenti: non che l’Unione europea non investa nell’agricoltura, ma non lo fa in settori mirati. Ne cito uno che conosco bene e da vicino: l’acqua. Senza non si può coltivare. Buona parte del nostro paese non è irrigato: questo sarebbe già un grande intervento. Se io quest’anno avessi avuto acqua in vigna avrei raccolto qualche grappolo d’uva, invece mi sono affidato al Padre Eterno. A livello di Governo bisogna poi indirizzare bene il denaro ricevuto dall’Unione europea.
Le associazioni di categoria tutelano gli agricoltori?
A differenza di chi le sta criminalizzando, io invece le capisco, nel senso che hanno le mani legate, poco potere e poco spazio. In questo momento hanno solo la possibilità di attività amministrativa ed esecutiva di decisioni prese altrove, un po’ come il medico di famiglia che fa le ricette. Abbiamo un “esercito” ma se non gli diamo le “armi”…
(Foto Ansa)