La morte di Toni Negri ha riacceso il dibattito sul tema violenza politica teorizzata/violenza compiuta. Gian Carlo Caselli ha appena dedicato un libro Giorni memorabili che hanno cambiato l'Italia (e la mia vita) (Laterza) alla riflessione su alcune giornate cruciali per la Repubblica con molti temi che tornano ciclicamente d'attualità. La stagione del terrorismo rosso, tra le altre, sulla quale ha indagato fin dalla prima ora, vi è ben rappresentata.
A proposito di terrorismo e di indagini su Br e Prima linea nel suo racconto non ci sono giri di parole ma tanta concretezza. Con quale spirito ha letto le ricorstruzioni dei giorni scorsi attorno alla morte di Toni Negri, polarizzate come quasi tutto di questi tempi?
«I ricordi di questi giorni mi hanno riportato alle polemiche sull’inchiesta del Pm padovano Pietro Calogero, accusato un po’ da tutti di aver voluto vedere in Negri & C. i capi delle Brigate rosse. Il cosiddetto ”teorema” era sbagliato, ma Calogero ha obiettivamente ottenuto un importante risultato che gli va riconosciuto: quello di eliminare ambiguità e incertezze intorno alla teorizzazione e alla pratica della violenza politica - anche armata -, di fatto mettendo in chiaro che si doveva stare o di qua o di là; non c’era e non c’è, in democrazia, via di mezzo».
Sulle ambiguità di tanti distinguo ha agito negli anni la cosiddetta "dottrina Mitterand", che cosa ha rappresentato per chi ha indagato su quegli anni con gli strumenti del diritto?
«La cosiddetta dottrina Mitterand presuppone una sostanziale, arbitraria presunzione di superiorità della Francia (la grandeur…) sul nostro Paese e in particolare sulla nostra giustizia, accusata di nefandezze varie mai commesse. Di qui l’asilo concesso a fior di criminali politici purché in Francia non accadesse nulla di quel che flagellava l’Italia. Il tutto con il compiaciuto appoggio di intellettuali francesi e non in spregio delle sofferenze patite dalle vittime (tantissime) in Italia. Una sintesi precisa di tutto ciò l’ha fatta un ministro francese in carica quando ha chiesto pubblicamente come avrebbe reagito la sua nazione se l’Italia avesse rifiutato l’estradizione di un soggetto imputato per la strage del Bataclan…»
Verso la fine del libro si parla anche delle sue dimissioni da Md dopo la pubblicazione di uno scritto di Erri De Luca che definiva il terrorismo una guerra civile a bassa intensità. Pesano così tanto le parole?
«Erri De Luca ha sempre usato le parole con gran disinvoltura e maestria. Ma su una agenda di Magistratura democratica (2014), con una singolare appropriazione indebita del mito di Orfeo ed Euridice, scrive un testo colmo di “perle”. Eccone alcune: "Il nostro Orfeo collettivo è stato il più imprigionato per motivi politici di tutta la storia d’Italia, molto più della generazione passata nelle carceri fasciste (...); La nostra Euridice usciva alla luce dentro qualche vittoria presa di forza all’aria aperta e pubblica, ma Orfeo finiva ostaggio (...); Chi della mia generazione si astenne, disertò (...); Si consumò una guerra civile di bassa intensità ma con migliaia di detenuti politici (...); Una parte di noi si specializzò in agguati e in clandestinità; Ci furono azioni micidiali e clamorose ma senza futuro”. Purtroppo facile glossare l’ultima “perla”, segnalando che senza futuro sono stati soprattutto i morti ammazzati. Come Emilio Alessandrini, Guido Galli, Girolamo Tartaglione, Vittorio Bachelet per limitarsi ai magistrati e giuristi “democratici”. Comunque, un’apologia della lotta armata che sull’agenda di Md a me suonò come una bestemmia».
Le correnti della magistratura dopo il caso Palamara non godono di buona fama.
«È singolare che chi è stato il perno fondamentale di un sistema che ha fatto della magistratura un mercato ora si presenti (e sia usato) come un immacolato maitre à penser».
La politica, intanto, accusa i magistrati, Md in particolare, di fare politica attraverso le correnti. C’è qualcosa da ripensare?
«Ad essere presi di mira (l'ultimo è stato il ministro della difesa Crosetto) sono soprattuto i magistrati di Md, perché sono i più convinti che la Costituzione si regge anche sul principio di legalità, secondo cui tutti i cittadini - anche i potenti - devono osservare le regole e accettare i relativi controlli. Ed ecco che i giudici di Md sono marchiati come "comunisti" o "toghe rosse" perché hanno l’impudenza di fare il loro dovere, mentre sono accusati di essere prevenuti e faziosi, fino a trasformare la giustizia in un luogo dove si fa politica, solo perché non si è disposti a fare la volontà di qualcuno. Sono martellanti le campagne pubbliche, condotte senza risparmio di uomini e media, e gli attacchi non riguardano (sarebbe già grave) un singolo processo, ma sono diventati a geometria variabile, nel senso che nel mirino può essere inquadrato qualunque magistrato (PM o giudice, quale che sia la città o l’ufficio in cui opera) ogni volta che abbia la “disavventura” di imbattersi in vicende che al potere non piace siano troppo indagate. Nessuna sentenza – si proclama – può valere più del voto di milioni di italiani: gli interventi giudiziari “non conformi” sono eversione della democrazia. Tempi davvero brutti, quelli in cui a un giudice – per potere ricercare e affermare la verità – non basta essere onesto e professionalmente preparato, ma occorre pure saper essere combattivo e coraggioso».
Dov’è il punto di caduta tra la libertà di espressione del magistrato e la sua necessità di salvare anche l’apparenza della propria indipendenza?
«Non sono le idee né la loro espressione, ma casomai le «appartenenze», in particolare se occulte, a ridurre l’imparzialità del magistrato. Spesso sono proprio l'apoliticità e l'indifferenza a offrire copertura e a mimetizzare fenomeni di subordinazione o di strumentalizzazione del ruolo. Passione civile e imparzialità nel giudizio non sono concetti antitetici o incompatibili. L'imparzialità è disinteresse personale, estraneità agli interessi in conflitto, distacco dalle parti, non anche indifferenza alle idee e ai valori (che sarebbe assai pericolosa in chi deve giudicare). Nuocciono all’indipendenza la partecipazione alla gestione del potere, i legami affaristici, il coinvolgimento in conflitti personali e di gruppo; non anche la partecipazione al dibattito e al confronto culturale. Il buon magistrato non persegue e non giudica idee e neppure «amici» o «avversari», ma solo persone chiamate a rispondere di fatti specifici, e lo fa indipendentemente dalle idee, dalle caratteristiche personali, dalle convinzioni, dal colore della pelle del destinatario del giudizio».
Ciclicamente torna attuale il cosiddetto “scontro” tra politica e giustizia, è fisiologico - figlio della separazione dei poteri delle costituzioni liberaldemocratiche - o siamo alla patologia?
«Parlare di scontro è deviante e comodo per certa politica, ma la realtà è un’altra. In democrazia non possono esserci dubbi sul primato della politica. Spetta unicamente alla politica operare le scelte finalizzate al buon governo. Nessun altro, compresa ovviamente la magistratura, può arrogarsi questa funzione. Ma il fatto è che proprio alla magistratura e alle forze dell’ordine sono stati delegati a ripetizione, nel tempo, gravi problemi che la politica non ha voluto o saputo affrontare o risolvere».
Per esempio?
«È successo per la mafia, con una legislazione perennemente “del giorno dopo”; per il terrorismo brigatista, almeno nella fase iniziale; per il terrorismo nero e stragista, con la sequela di tranelli e depistaggi che hanno ostacolato le indagini; per la corruzione: fin dal 1992, la vicenda di Tangentopoli, preannunciata dagli scandali Italcasse, Lockheed e Petroli, chiedeva a gran voce una legge anticorruzione davvero efficace, ma solo nel 2019 la si è avuta con la cosiddetta “spazzacorrotti”; per la sicurezza sui posti di lavoro, dove si è arrivati al punto di affidare impropriamente ai magistrati la terrificante alternativa tra la vita e il lavoro dei dipendenti dell’Ilva di Taranto…; per l’evasione fiscale; per la sicurezza agroalimentare; per la tutela dell’ambiente e della salute; per la bioetica. Attenzione, però. Delega alla magistratura, spesso e volentieri, ma sempre con riserva, una specie di “asticella” da non oltrepassare, per non toccare certi poteri “forti”, che non ci stanno a essere controllati. E quando capita, si difendono: “Noi non abbiamo delegato un bel niente”; Siete voi magistrati responsabili di straripamento o invasione di campo!”. A volte si parla addirittura di “golpe”, di “partito o governo dei giudici”, di “inchieste basate su teoremi e non su prove”. Insomma, un catalogo di attacchi ai rappresentati della giustizia che osino lavorare in maniera indipendente, “arricchito” da ingiurie assortite, come (testualmente) “cancro da estirpare”, “pazzi”; “antropologicamente diversi dalla razza umana”; “eversori”; “associazione a delinquere”. Non proprio uno scontro fra due contendenti, se a “menare” è uno soltanto...».
La fiducia del cittadino nella giustizia, a forza di stracci che volano, tende a calare. È un problema per il sistema Paese?
«Giustizia e legalità fanno sempre più fatica ad assolvere ai propri compiti, ovvero garantire i diritti dei cittadini e il rispetto delle regole della convivenza civile. Le storture sono tante: un processo farraginoso e incomprensibile, con costi e tempi biblici che generano sfiducia e insicurezza nei cittadini, orientati - anche da certi media -a dar la colpa di tutto al “manovratore” cioè ai magistrati. Ma c’è da chiedersi se non vi sia qualcuno cui faccia comodo avere, in tema di giustizia, una “inefficienza efficiente”, nel senso di funzionale al mantenimento delle sue posizioni di impunità e privilegio; qualcuno cui viene l’orticaria se solo sente parlare di regole».