Il senatore Pietro Grasso davanti a una gigantografia di Paolo Borsellino, cui ha dedicato un libro in uscita da Feltrinelli.
All’alba di domenica 19 luglio 1992, dodici ore prima di essere ucciso in Via d’Amelio, il Procuratore Aggiunto della Repubblica di Palermo Paolo Borsellino iniziò a scrivere una lettera di risposta agli studenti di una scuola di Padova, dopo avere ricevuto una missiva della professoressa che rimproverava il magistrato di avere disertato un’affollata Assemblea organizzata dai giovani sul tema dell’antimafia e di non averli mai avvertiti della sua assenza.
La lettera mai conclusa è contenuta nel volume “Paolo Borsellino parla ai ragazzi”, edito da Feltrinelli e scritto dal senatore Pietro Grasso, in passato Presidente del Senato, Procuratore Nazionale Antimafia e Giudice a latere del Maxi-Processo di Palermo.
Nella lettera, Paolo Borsellino innanzitutto rispose che non aveva mai ricevuto le telefonate della professoressa (che aveva composto il numero dell’ufficio della Procura di Marsala dove da tempo non esercitava più le funzioni di Procuratore Capo, in quanto era tornato a Palermo, dove era diventato Procuratore Aggiunto). Borsellino, poi, iniziò a rispondere alle domande degli studenti del liceo scientifico Cornaro di Padova. Scrisse che era diventato magistrato nel 1964, un anno dopo la strage di Ciaculli. Raccontò la sua prima istruttoria di mafia (sull’assassinio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile nel 1980). Descrisse la sua amicizia sin dall’infanzia con il collega Giovanni Falcone, nato nello stesso quartiere palermitano della Kalsa e ucciso a Capaci il 23 maggio del 1992 insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta. Si soffermò sulle differenze tra “Cosa Nostra”, Ndrangheta e Camorra. Esternò il suo dispiacere per l’equivoco della mancata partecipazione all’assemblea di Padova, ma nello stesso tempo espresse il suo ottimismo sull’attenzione dei giovani per la questione morale.
Nei giorni precedenti, Paolo Borsellino aveva chiesto ad un parroco di confessarsi urgentemente e aveva confidato ad un altro parroco di allontanare i suoi figli per “farli abituare alla sua assenza”. Secondo Pietro Grasso, “lo stato d’animo di Borsellino era inquieto, quando alle cinque di mattina di domenica 19 Luglio 1992, si sedette davanti alla sua scrivania per scrivere le risposte alle domande degli studenti di Padova. In quei giorni aveva poco tempo libero, ma decise di usare quelle ore dell’alba, in uno dei rarissimi momenti di pausa dal lavoro, per mandare un messaggio a studentesse e studenti che non aveva mai incontrato. Alle sette di mattina parlò al telefono con la figlia più piccola, Fiammetta, in quei giorni in vacanza in Thailandia, poi ricevette la chiamata dell’allora Procuratore capo di Palermo che, finalmente, dopo tante insistenze, lo autorizzava a occuparsi delle indagini relative alla mafia palermitana. Una telefonata inusuale, sia per l’orario che per la giornata festiva, che lo turbò molto. Lasciò, dunque, a metà la lettera per recarsi a Villagrazia di Carini, dove lo avrebbero raggiunto poco dopo la moglie Agnese e il figlio Manfredi”.
Pertanto, Borsellino interruppe la lettera prima di rispondere alla quarta domanda, riguardante i rapporti tra mafia italiana e mafia americana. Ma Paolo Borsellino non concluse più la missiva, perché alle 1658 del 19 luglio del 1992, sotto casa della madre in Via D’Amelio, a Palermo, fu assassinato con un’autobomba, insieme a 5 agenti della sua scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.
La strage di Via d’Amelio fu uno dei gialli più inquietanti della storia d’Italia, come confermato da Pietro Grasso, all’epoca collega oltre che amico di Falcone e Borsellino.
Un primo mistero riguardò la scomparsa dell’Agenda rossa, dove il magistrato assassinato scriveva appunti importanti e delicati. Come evidenziato da Grasso, “in quei cinquantasette giorni di distanza tra la strage di Capaci e la strage di Via D’Amelio successero numerosi fatti ancora avvolti dal mistero. Tra i molti dubbi che circondarono quella vicenda spiccò la scomparsa dell’agenda rossa, un quaderno pieno di appunti presi da Paolo nelle ultime settimane. I figli Lucia e Manfredi confermarono che l’agenda rossa fu presa dal padre e fu riposta nella sua borsa, sia la mattina nella casa di Palermo, sia il pomeriggio quando dalla villetta di Villagrazia di Carini si spostò verso via D’Amelio. Dopo l’attentato, la borsa di Paolo passò di mano in mano e venne riconsegnata ai familiari solo dopo mesi: dentro c’erano tutti i suoi effetti personali, compreso un pacchetto di sigarette, ma mancava l’agenda rossa”.
Come spiegato da Grasso “le indagini e i processi sono ancora in corso, la ricerca della verità non si è mai fermata, pur fra mille ostacoli e un bieco depistaggio durato oltre sedici anni, e che solo grazie alla collaborazione del vero autore del furto dell’automobile 126, il pentito Gaspare Spatuzza, si è potuto smascherare. Questa ricerca non dovrà fermarsi finché non vi sarà piena luce sui moventi e sui mandanti che hanno armato le mani degli assassini”.
Un altro mistero indirettamente collegato alla strage di Via D’Amelio fu il suicidio di Rita Atria, avvenuto il 26 luglio del 1992 a Roma. “Era una ragazza giovanissima, di appena diciassette anni. Si chiamava Rita, ma Paolo la soprannominava la “picciridda”, la bambina in dialetto siciliano. Il padre e il fratello erano affiliati a Cosa nostra e furono uccisi per contrasti interni alla mafia. Lei ne soffrì moltissimo e decise di testimoniare, di collaborare con la giustizia per raccontare a Borsellino ciò di cui era a conoscenza. Analoga scelta intraprese la moglie di suo fratello, Piera Aiello (testimone di giustizia e oggi deputata nazionale, n.d.r.) Il rapporto tra Rita Atria, Piera Aiello e Paolo Borsellino era tale che entrambe chiamavano il magistrato “zio Paolo” in senso affettuoso. La famiglia, a partire dalla madre, ripudiò Rita, che si legò ancor di più a Paolo, che divenne il suo sostegno. Rita Atria non riuscì a sopportare quell’ulteriore perdita e si tolse la vita una settimana dopo la strage di Via D’Amelio”.
Trent’anni prima di Rita Atria, un’altra donna siciliana aveva denunciato gli assassini di alcuni suoi congiunti e aveva collaborato con la giustizia in qualità di testimone. Si chiamava Serafina Battaglia. La copertina del quotidiano L’ORA dei primi anni Sessanta (contenente la fotografia in bianco e nero che ritraeva il magistrato inquirente e quella donna vestita di nero sul luogo dell’omicidio di suo figlio) spinse l’allora studente Piero Grasso a intraprendere la carriera giudiziaria “per difendere i deboli”.
Grasso frequentava la stessa scuola di Paolo Borsellino: il Liceo Classico Meli di Palermo. Borsellino scriveva articoli di fuoco contro il sistema scolastico dell’epoca nel giornale studentesco Agorà. Dopo la laurea nella Facoltà di Giurisprudenza e dopo il concorso in magistratura, Pietro Grasso divenne Pretore a Barrafranca nell’ottobre del 1969. La sua carriera giudiziaria durò per 44 anni, prima di diventare Presidente del Senato. Tra le sue tappe anche la guida della Procura della Repubblica di Palermo e la direzione della Procura Nazionale Antimafia. Dopo che nel 2013 andò in pensione, Piero Grasso decise di tornare al cinema. L’ultimo film visto in una sala cinematografica era stato “Crimini e Misfatti”, di Woody Allen, nel 1990, nell’anno dell’uccisione del giudice Rosario Livatino.
“Quella sera – racconta Grasso - entrando in un cinema con mia moglie, naturalmente circondato dalla scorta, sia pure molto discreta, provai una sensazione di emarginazione quando ascoltai che una signora sussurrò al marito: “Stiamo attenti, c’è il giudice Grasso, sediamoci lontano, è pericoloso, non si sa mai cosa può succedere”. Mi sembrò di essere alla stregua di una mina vagante, pronta a esplodere da un momento all’altro. Non andai più al cinema per quasi trent’anni, accontentandomi dei film in videocassetta per non infastidire e spaventare la gente”.
Nel 2013 Pietro Grasso e la moglie (la professoressa Maria Fedele) decisero di tornare al cinema per assistere all’anteprima del film “La mafia uccide solo d’estate”, con regia di Pierfrancesco Diliberto, in arte PIF e sceneggiatura di Pif, Michele Astori e Marco Martani.
“Il film raccontava, in modo ironico e profondo, le vicende di mafia viste attraverso gli occhi di un bambino ignaro che pian piano, crescendo, acquistava consapevolezza di quanto avveniva intorno a lui. Il commento mio e di mia moglie Maria fu spontaneo quando scorrevano i titoli di coda e confessammo a Pif che era il più bel film sulla mafia da noi mai visto”.
Come raccontato da Pif nella Prefazione al libro “Paolo Borsellino parla ai ragazzi”, “L’ultimo film che il dottor Grasso era andato a vedere era quello di Woody Allen (un collega regista americano). Ripartire con Pif dopo tutti questi anni forse sarebbe stato un po’ traumatico. Seduto accanto al dottor Grasso durante la proiezione, cercavo di cogliere le sue reazioni con la coda dell’occhio. Provavo a darmi un tono e non volevo mostrarmi preoccupato, ma ovviamente lo ero. Nel film raccontavo cose che lui conosceva meglio di me, poiché erano storie di gente che lui conobbe e con cui lavorò. Persone che si ostinavano a pensare che con la mafia non si dovesse convivere. Che la mafia doveva solo essere combattuta e vinta. E continuarono a pensarlo nonostante le difficoltà: gli insulti, gli sgambetti, la paura quotidiana di essere uccisi e non necessariamente dalla mafia. Non indietreggiarono di un centimetro”.
Il film “La mafia uccide solo d’estate” era una commedia drammatica, che alternava momenti di comicità esilarante alle scene tragiche di alcuni delitti eccellenti di Palermo commessi in estate, come se i mandanti volessero approfittare di una città distratta dalle vacanze, dal caldo e dal mare.
In effetti Grasso, assistendo all’anteprima del film, notò che molti omicidi eccellenti - vissuti negli anni in cui era magistrato - avvennero proprio in estate: dalla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro (16 settembre del 1970) all’uccisione di Padre Pino Puglisi (15 settembre del 1993), passando per le uccisioni dei magistrati Borsellino, Chinnici, Costa, Scopelliti e di tante altre vittime. Alcuni delitti eccellenti, invece, avvennero nei giorni dell’Epifania, in un clima di festa, come ad esempio le uccisioni del presidente della Regione Piersanti Mattarella, del sindacalista Accursio Miraglia, dei giornalisti Beppe Alfano e Pippo Fava. Senza dimenticare la strage di Portella della Ginestra, avvenuta il Primo Maggio del 1947, nella giornata dedicata alla Festa del Lavoro, con undici lavoratori uccisi.
Come nel film di Pif, sembrava che ci fosse una volontà di colpire confidando nella distrazione festiva per popolazione, mass media e istituzioni.
Tra le vittime eccellenti di quella stagione di sangue e misteri, anche numerosi giornalisti. Secondo Grasso, “in Italia ci sono regioni in cui un giornalista che descriva senza veli la realtà del potere rischia la vita, intimidazioni, minacce di morte. Ogni anno il rapporto di «Ossigeno per l’informazione», l’osservatorio per i giornalisti minacciati, elenca sempre nuovi episodi di minacce e intimidazioni ai giornalisti, con un crescendo che non può non suscitare allarme sull’esercizio della libertà di cronaca e sul diritto dei cittadini a essere informati”.
Ma, nonostante la scia di sangue, misteri, corruzione e collusioni, Paolo Borsellino era ottimista sulla sensibilità dei giovani e sulla rivolta popolare. Un ottimismo confermato prima dal “tifo della gente” per il Pool di Caponnetto, Falcone, Borsellino e degli altri magistrati, poi dalle manifestazioni oceaniche del popolo di Palermo dopo il 23 maggio.