«I figli degli stranieri che nascono in Italia non sono soltanto i figli degli immigrati, sono anche figli nostri, sono il nostro futuro». Lo ha detto Andrea Riccardi, ministro della Cooperazione, in occasione del lancio della campagna “Io come tu. Tutti uguali davanti alla vita, tutti uguali di fronte alle leggi” da parte di Unicef Italia. La campagna intende richiamare l'attenzione sull'uguaglianza dei diritti di tutti i minorenni e la non discriminazione dei bambini e degli adolescenti di origine straniera che vivono in Italia. In particolare, l'Unicef chiede una nuova legge sulla cittadinanza, così da rendere cittadini italiani i figli degli immigrati che nascono sul nostro territorio nazionale.
Il ministro Riccardi condivide in pieno questo obiettivo e giudica antiquato lo “jus sanguinis” attualmente
vigente (in base al quale, la cittadinanza si acquisisce o dalla
nascita grazie a un genitore che sia italiano, oppure, in un secondo
momento, per naturalizzazione, dopo dieci anni di residenza regolare o
dopo tre anni di matrimonio con un italiano). La legge risale al
1992. Negare il diritto alla cittadinanza, secondo Riccardi, spegne «la
grande speranza e la voglia di vivere» dei figli degli immigrati
nati qui, determinando «un percorso esistenziale sospeso». «Non è
l'emergenza di Lampedusa il paradigma dell'immigrazione, sono le aule
delle nostre scuole, dove i figli degli immigrati si integrano ogni
giorno. Perché la nostra non è la società dello scontro di civiltà, ma
la società del convivere», ha detto il ministro fra gli applausi.
«Rivendico a questo Governo», ha aggiunto Riccardi, «l'aver contribuito a
un rinnovamento dei toni e del linguaggio sugli immigrati. Prima c'era
un tono che mi faceva vergognare».
«Il ministro ha ragione, prima di questo Governo si parlava degli
immigrati con un linguaggio degno di una congrega di alcolisti», ha
osservato il sociologo Luigi Manconi. Riccardi giudica “un peccato”
l'impasse in Parlamento della discussione sulla nuova legge sulla
cittadinanza, ma esprime un auspicio: «Nel 2013 si celebrerà l'Anno
europeo della cittadinanza, quale migliore appuntamento per fare
giustizia?». Intanto sono già 61 i Comuni italiani che, grazie
all'invito dell'Unicef, hanno conferito la cittadinanza onoraria ai
minorenni di origine straniera che vivono nei loro territori. Altri 106
comuni, annuncia il presidente di Unicef Italia Giacomo Guerrera, lo
faranno nei prossimi giorni.
Il 20 novembre si celebra la Giornata nazionale dell'infanzia e
l'adolescenza. Per l'occasione il presidente della Camera Fini ha deciso
di dedicare ai temi dell'infanzia tre ore della seduta pomeridiana
della camera dei deputati. Sarà interessante vedere il numero dei
parlamentari presenti in aula.
Roberto Zichittella
Sono oltre 500 mila, tutti nati nel nostro Paese. Danno colore e speranza al futuro. Rappresentano la seconda generazione degli emigranti che ci hanno scelto come terra promnessa. E patiscono perché non possono chiamarsi italiani a tutti gli effetti anche se in realtà stanno cambiando il volto dell’Italia. Nelle nostre regioni, i minorenni d’origine straniera rappresentano in questo momento il 23,9 per cento degli extracomunitari in possesso di un regolare permesso di soggiorno (3 milioni e 637 mila). Ormai, in Italia, i minori di 18 anni nati da genitori non ancora cittadini sono più di mezzo milione.
E proprio a loro è dedicata la pubblicazione Facce d’Italia , realizzata dall’Unicef in occasione del 20 novembre, Giornata mondiale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Facce d’Italia si inserisce nel quadro della campagna Io come Tu , lanciata dal Comitato italiano per l’Unicef nel 2010 per l’eguaglianza dei diritti di tutti i minorenni e la non discriminazione dei bambini e degli adolescenti di origine straniera che vivono in Italia.
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«Al di là delle definizioni che non rendono giustizia alla complessità e verità di storie che si nascondono dietro la definizione “di origine straniera”, per questi bambini e adolescenti si è evidenziato un grave rischio di esclusione sociale e di mancanza di opportunità, con il conseguente mancato godimento dei propri diritti», sottolinea Giacomo Guerrera , presidente del Comitato italiano per l’Unicef. Il principale diritto non riconosciuto ai minori stranieri che vivono nel nostro Paese è quello della cittadinanza italiana.
«Non so se definirla follia o assurdità», denunciò proprio un anno
fa, con parole che fecero scalpore, il Presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano . «Noi abbiamo ormai centinaia di migliaia di
bambini immigrati che frequentano le nostre scuole», disse Napolitano,
«e che per una quota non trascurabile, sono nati in Italia, ma ad essi
non è riconosciuto questo diritto elementare, ed è anche negata la
possibilità di soddisfare una loro aspirazione che dovrebbe
corrispondere anche a una visione nostra, nazionale, volta ad acquisire
dalle giovani generazioni nuove energie ad una società abbastanza
largamente invecchiata, se non sclerotizzata».
Per la cronaca, nell’anno scolastico 2011-2012 sono quasi 750 mila
gli alunni di cittadinanza non italiana seduti dietro i banchi delle
nostre scuole. In Italia la legge vigente sulla cittadinanza si basa sullo jus sanguinis ,
il “diritto di sangue”. Vuol dire che si diventa cittadini italiani o
dalla nascita (se uno dei genitori è italiano) o per naturalizzazione,
dopo dieci anni di residenza regolare o dopo tre anni di matrimonio con
un italiano. Non viene contemplato, invece, lo jus soli , il
“diritto del suolo”, cioè l’automatica cittadinanza per chi nasce sul
territorio italiano. Oggi chi nasce in Italia da persone straniere deve
attendere i 18 anni di età, solo allora potrà avanzare la richiesta di
cittadinanza, ma avrà tempo di farlo solo fino al compimento dei 19
anni.
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In Parlamento ci sono proposte di legge (anche di iniziativa
popolare) per cambiare le norme sulla cittadinanza, ma restano forti
divisioni fra le forze politiche e mancano ormai pochi mesi allo
scioglimento delle Camere. L ’assenza di una legge per la
cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia è considerata dal
ministro della Cooperazione Andrea Riccardi «uno degli obiettivi mancati
dalla politica in questo ultimo scorcio di legislatura».
Roberto Zichittella
Il nome è di fantasia. La storia no. È reale. Biman, 17 anni, è un minorenne straniero non accompagnato. Così lo definisce la legge. Il linguaggio burocratico nasconde il dramma di un ragazzo che scappa di notte dal Bangladesh dove, in poco spazio, convive con i genitori, otto fratelli e le tre giovani cognate. Solo un fratello conosce il suo piano e lo aiuta a raccogliere i soldi per il viaggio.
In cento giorni Biman attraversa India, Pakistan, Afghanistan, Turchia e Grecia. Migliaia di chilometri, pochi soldi, tanta fame, molta paura. Infine, s’imbarca per Bari. Per non farsi scoprire si nasconde dentro un armadio. Con sé, solo una bottiglia d’acqua. Ottenuto un passaggio in auto arriva a Roma e nella capitale passa le prime cinque notti all’aperto. Lo portano in Questura. Ma non lo rimandano indietro. Biman comincia un percorso d’accoglienza. Cambia quattro case (ora convive con tre ragazzi egiziani), impara a leggere e a scrivere, va a scuola.
All'Unicef rivela che vorrebbe fare il cuoco. Magari il pizzaiolo. «Sono venuto in Italia per aiutare la mia famiglia, in Bangladesh c’è troppa povertà», dice. Fra poco sarà maggiorenne, forse sarà costretto a partire. Dei suoi familiari non ha più notizie. Non saprebbe neppure come contattarli.
Roberto Zichittella
Zoila è arrivata in Italia nel 1994 e ora dichiara di essere «pazzamente felice» di vivere qui. All'Unicef, che ne raccoglie la testimonianza, racconta d'esser partita da Guayaquil, in Ecuador, insieme alla famiglia. Era un viaggio della speranza per trovare le cure adatte alla sorella, gravemente ammalata. Il nucleo familiare è stato accolto a Genova, dove c’è un ospedale, il Gaslini, specializzato nel curare i bambini.
«Giunta in Italia, ho odiato con tutte le mie forze questo Paese, al punto da non voler neppure imparare la lingua», confida Zoila. «È stato un sentimento ostile durato almeno un mese». Ma la vita è ricominciata lo stesso, anche se lontano dalla sua patria d’origine. E ciò, grazie alla determinazione della madre nonché grazie anche all’aiuto della comunità ecuadoriana di Genova, la più numerosa (un quarto dei 22 mila ecuadoriani presenti in Italia abita nel capoluogo ligure).
I genitori di Zoila si sono dovuti arrangiare. «I miei hanno accettato di fare i tipici mestieri dei migranti. Mia madre, giorno e notte accanto agli anziani. Mio padre, chiamato ora come imbianchino, ora come muratore». Nonostante le difficoltà, Zoila vede il suo futuro in Italia. L’Ecuador è sempre nel cuore, com’è ovvio che sia, con la nostalgia per la sabbia in riva al mare e per i giochi in compagnia degli amici. «Confesso che uno dei sogni che custodisco nel cassetto è quello di continuare a studiare per migliorare le condizioni di vita del Paese dove sono nata». È anche così che l’“italiana” Zoila coltiva le sue radici.
Roberto Zichittella
Parlano
in dialetto veneto; tifano per il Benetton e gli azzurri; pasteggiano
al kebab sotto casa, ma prima della pizza si fanno lo spritz in piazza
dei Signori. Sono sempre di più in tutt’Italia, lo dicono le
statistiche: gli studenti non italiani che risiedono nel nostro Paese sono già 711 mila. E
lo scorso anno scolastico il 42% degli studenti che non aveva la
cittadinanza era nato in Italia. Sono i ragazzi “italiani” figli di
migranti, la cosiddetta seconda generazione, i “2G”, che oggi
rivendicano i loro diritti…a buon diritto.
Ha
girato mezza penisola per la campagna “L’Italia sono anch’io”. Italiano
ventuduenne, figlio di marocchini, nato a Matera, ma residente da anni a
Treviso, Said Chaibi non ha dubbi sul fatto che il
diritto di cittadinanza sia decisivo per la conquista dell’eguaglianza
reale degli “stranieri” nati in Italia . «Lo jus soli significa
diritto al lavoro, a un reddito, alla casa, a un ambiente migliore.
Insomma, attorno alla cittadinanza si gioca tutto, nella prospettiva di
costruire, poi, una vera cittadinanza europea. Da noi il
razzismo non è sociale, ma burocratico, legislativo. La legge
sull’immigrazione è da riscrivere subito e il Comune di Treviso andrebbe
commissariato», dichiara. Se non cambierà nulla, Said ipotizza
l’aggravarsi del conflitto sociale: «La crisi economica creerà sempre
più disoccupati. Con le norme vigenti, scaduti i termini dei permessi di
soggiorno per tanti migranti che accadrà? Espulsioni in massa? In
Francia, dove gli immigrati sono già alla terza generazione, si è
arrivati alle banlieue. Che accadrà da noi tra un po’?».
Assieme a lui, a Treviso, nella sede di Cittadinanza attiva, coordinamento ato nel 2007 che raggruppa 40 associazioni di immigrati che vivono nella "Marca", c’è anche Francesca N’Danou,
18 anni, liceale, nata a Roma da genitori togolesi, residente a Treviso
da 13 anni. La giovane precisa: «Il problema non è solo legislativo.
Sono cittadina italiana da cinque anni, ma ancora m’accade che i
poliziotti mi fermino per la strada per chiedermi i documenti. E davanti
al passaporto qualcuno mi chiede ancora: ‘Ma è sicura di essere
italiana?’”, osserva, con rabbia, la giovane. “In realtà trovo che le
barriere siano prima di tutto sociali. Per questo si deve agire
anzitutto a livello locale per creare una società veramente multietnica:
dai quartieri dove viviamo, alle scuole che frequentiamo».
Le fa
eco Ayan Mohamed Nur, ventiduenne somala, in Italia da
16 anni, laureata con pieni voti ad Architettura a Venezia : «Mi sono
sempre trovata bene in Italia e nel Veneto, ma se fossi cittadina
italiana potrei proseguire gli studi e iscrivermi alla laurea
specialistica in Svezia». Con buona pace del diritto allo studio.
Alberto Laggia
«Io sono un bambino che ama due cose: il cous-cous e la cotoletta». «Io sono nato in Italia, sono italiano. Non sono nato nel Paese dei miei genitori, e non ci sono neanche mai andato, perché costa troppo». «Io non sono un immigrato. Sono figlio di persone coraggiose che hanno deciso di lasciare il loro Paese in cerca di un futuro migliore». «Io non sono un ‘cinesino’, ma un bambino cinese».
Frasi di bambini e ragazzi stranieri, ma nati e cresciuti in Italia, che esprimono a loro modo il disappunto, il disagio, perfino la rabbia di chi viene troppe volte etichettato come un diverso, uno che non è ancora “dei nostri” , solo perché magari ha la pelle scura, a volte parla in modo incomprensibile, o mangia cibi strani. Sono le voci di alcuni dei 572 mila minori stranieri nati in Italia, figli di genitori migranti e, perciò, privi di cittadinanza, perché la nostra legislazione non riconosce ancora lo “jus soli” e non basta esser nati a Torino o Palermo, a Reggio o a Scandicci per essere cittadini italiani.
Daniela Anghel, 36 anni, moldava, ma da molti anni in Italia,
vicepresidente delle Acli-colf di Treviso, ha pensato di raccogliere tra
gli alunni stranieri delle scuole elementari e medie del Veneto un bel
po’ di questi pensierini. Ne è uscita una divertente, ironica
antologia: tante piccole perle di saggezza infantile. Eccone alcune. Non
servono commenti, perché dicono già tutto, nella loro ingenuità, forse,
ma anche con la forza che tanti adulti hanno perduto di dire le cose
come stanno. Di dire ciò che conta davvero.
«Io sono un bambino; non sono l’interprete della scuola, voglio giocare e non perdermi la ricreazione». «Io sono trilingue: parlo italiano, filippino e ilocano (dialetto delle Filippine, ndr). E tu quante lingue parli?». «Io
non sono integralista. Sono di religione musulmana». «Io sono un
cittadino non comunitario, come gli americani, gli svizzeri, i
giapponesi. Non sono un extra-comunitario… e neanche un extraterrestre ».
«Io sbaglio le doppie, ma non sono sbagliato”. “Io sono un lettore
veloce: leggo tremila caratteri, non sono un analfabeta da
alfabetizzare”. “Io non sono clandestino, sto nel permesso di soggiorno
scaduto di mio padre che lavora in nero e fa il panettiere di notte».
«Io non sono figlio di coppia mista. Sono figlio di mio padre e di mia
madre». «Io non ho la musica nel sangue. Sono stonato e non sono veloce
come una gazzella». «Io sono amato e non sono stato abbandonato dai miei
genitori che per alcuni anni non hanno potuto tenermi con loro, e che
con molto dispiacere mi hanno affidato ai nonni».
Anche questo è un modo per dire “l’Italia sono anch’io”, per usare lo
slogan coniato per la campagna di sostegno alla proposta di legge che
riconosce lo "jus soli". Loro, i bambini, però, lo sanno dire meglio.
Alberto Laggia