Quando ero una ragazzina, a fine anni Settanta, non si usava ancora il termine bullismo, ma non per questo non si verificavano episodi di prese in giro e tiranneggiamento da parte di “amici” e compagni di scuola. Io ne sono stata vittima diverse volte, probabilmente la mia ingenuità, il mio modo di reagire diretto e impulsivo facevano di me la vittima ideale. Ne ho subiti diversi negli anni, anche da adolescente, con i ragazzi della mia compagnia che mi mettevano il motorino sull’albero, uno arrivò anche a spegnermi una sigaretta sul braccio. E quando già andavo all’università un ex fidanzato che pure era stato lui ad avermi lasciato cominciò a perseguitarmi con un amico: mi faceva trovare il motorino che parcheggiavo davanti alla biblioteca in cui andavo a studiare avvolto nel nastro da pacchi, oppure con il tubo di scappamento otturato da una cicca. Mi citofonava alle ore più impensate arrivando anche a bloccare il taso del citofono con uno stuzzicadenti. La persecuzione più perfida fu quando finse, con la complicità di una sua amica, di farmi telefonare dalla segreteria della mia università, che si trovava in una città distante 100 chilometri da dove vivevo, per dirmi di andare a firmare dei documenti urgenti: per scoprire, una volta che arrivai lì apposta, che dalla segreteria non era mai partita nessuna telefonata.
L’atto di bullismo che però ha condizionato la mia vita per lungo tempo accadde agli inizi della prima media. Avevo sempre portato i capelli neri a caschetto con la frangetta, e così mi avevano conosciuto i miei nuovi compagni. Un giorno mia madre mi portò da una nuova parrucchiera per regolare il taglio, ma lei proposte di cambiare look con un taglio più sbarazzino. Aveva un’aria così professionale e decisa e dissi di sì. Quando poi mi vidi allo specchio rimasi sorpresa e contrariata dal mio nuovo aspetto: sembravo un maschio, i capelli erano cortissimi, ricordo che pensai di avere la testa come la capocchia di un fiammifero. Ma non ne feci una tragedia, sarebbero ricresciuti. E mi presentai a scuola l’indomani mattina senza particolari preoccupazioni. Alla mia vista uno dei miei compagni mi additò mettendosi a sghignazzare: «Uah uah! sembra una carota!». E prese a canzonarmi dicendomi “Carotina Carotina”.
Quel nomignolo diventò subito virale, e da quel giorno tutti i compagni, anche le femmine con cui ero in amicizia non mi chiamarono più Fulvia ma Carota, Carotina. I maschi più scalmanati si divertivano anche a inventare variazioni sul tema vegetale, con fantasiosi appellativi tipo minestrone, orto Liebig, cedro del Libano. E se i professori mi chiamavano per cognome, per tutti gli altri, bidelle comprese, ero solo Carotina e così rimasi per i tre anni della scuola media. Fulvia non esisteva più. Io mi arrabbiavo, gridavo, dicevo di smetterla, ma questo non faceva che accrescere il sadismo dei maschi, anche se i miei capelli erano ricresciuti. Nessun professore intervenne in mia difesa, a casa non ci davano peso, ma fu per me fonte di sofferenza e insicurezza. Ora il tema del bullismo è molto dibattuto: da fenomeno di nicchia, di cui avere quasi vergogna, è diventato un aspetto della relazione tra pari che viene affrontato con bambini e ragazzi, per scardinare attraverso l’intervento degli adulti, le dinamiche che ne sono alla base.
Dopo oltre quarant’anni, io che scrivo libri per bambini e ragazzi, ho deciso quindi di dedicare a quell’episodio della mia infanzia il libro, rivolto ai bambini dagli 8 anni, La chiamavano Carotina, edito da Buk Buk, con le illustrazioni di Lucia Vender. Ho spostato la narrazione in una quarta elementare, ma la dinamica della storia è quella che accadde a me. Dando spazio al ruolo dell’insegnante, alla solidarietà tra compagni, condita con un pizzico di giallo e naturalmente un lieto fine. Penso possa essere uno strumento coinvolgente e utile per affrontare in classe e in famiglia queste dinamiche.