Da Buonalbergo, il paese nel beneventano in cui si è ritirato da quando è in pensione, Pasquale Vitigliano ricorda con un sorriso quando invece ci tornava ai tempi in cui lavorava per il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a Torino: «La gente fermava mia madre e le chiedeva: “Lucia, ma sei sicura che tuo figlio faccia davvero il carabiniere?”». Non poteva certo dire, nemmeno a lei, che andava in giro con barba, capelli lunghi, stivali e giacca in pelle, tanto da essere soprannominato dai colleghi “Trucido” come il personaggio dei film di Tomas Milian, perché faceva parte del Nucleo antiterrorismo la cui storia è al centro della fiction Il nostro generale, in onda stasera, il 16 e il 17 gennaio su Rai 1. «Dovevamo conciarci così da “fricchettoni” per poterci infiltrare nelle manifestazioni degli studenti e degli operai e raccogliere informazioni utili sui brigatisti. Il generale ci disse che dovevamo imparare a pensare come loro e che dovevamo scordarci di avere una vita privata. Io, infatti, mi sono sposato a 37 anni e mezzo».
Come si relazionava con voi?
«Era talmente austero che poteva risultare antipatico a chi non lo conosceva. E invece era un uomo di un’infinità bontà. Con noi si comportava come un padre, che ci strigliava quando sbagliavamo e ci incoraggiava nei momenti di difficoltà. Stava sempre con noi: quante volte abbiamo diviso una pizza fredda nello stanzone dove ci riunivamo. Ho tanti ricordi personali che mi legano a lui. Come quella volta in cui dovevo accompagnarlo ad un importante appuntamento e si accorse di avere una macchia d’olio sulla giacca: era una cosa intollerabile per uno come lui. Così, in piena notte, svegliai una mia amica che aveva una lavanderia e lei la pulì. Oppure quell’altra volta in cui mi incaricò di comprare un mazzo di fiori per la moglie. Io non li trovai quelli che piacevano alla signora Dora e allora lui venne con me nel più grande mercato di Torino, Porta Palazzo, finché non trovammo un fioraio che li aveva».
Di quali operazioni va più orgoglioso?
«Ho partecipato direttamente agli arresti di Marco Donat-Cattin, il figlio di Carlo, uno dei capi della Democrazia Cristiana, e di Patrizio Peci. Marco, che era uno dei capi di Prima Linea e che partecipò direttamente a vari omicidi, tra cui quello del giudice Emilio Alessandrini, era riuscito a scappare in Francia, ma io e il collega Luigi Tarantino, che parlava benissimo il francese, riuscimmo a rintracciarlo e ad arrestarlo. In quanto a Peci, arrestammo lui assieme a Rocco Micaletto in piazza Vittorio Veneto, dopo aver perqusito un covo. La sua cattura fu fondamentale perché fu il primo brigatista a dissociarsi e a raccontare la struttura dell’organizzazione».
Dov’era quando fu ucciso il generale Dalla Chiesa?
«Ero ancora a Torino. Ero appena entrato al Boccaccio, un locale che frequentavo in quel periodo. Il titolare mi guardò in faccia e io capii subito, perché gli chiesi: “Hanno ucciso Dalla Chiesa, è vero?”. Nessuno di noi fu felice quando accettò di diventare prefetto di Palermo. Già a Torino aveva dovuto subìre per anni invidie e gelosie e tornare a Palermo con una carica governativa che quindi non gli consentiva di portarsi dietro i suoi uomini, equivaleva a mandarlo allo sbaraglio. Ma lui era fatto così: si sentiva un servitore dello Stato».
Ha altri rimpianti?
«Io e i miei colleghi abbiamo dedicato dieci anni della nostra vita a combattere il terrorismo, ma non abbiamo avuto nessun riconoscimento, nemmeno un encomio. In compenso, conservo tra gli oggetti più cari una medaglietta che il generale mi donò, accompagnata da un bigliettino su cui scrisse: “Bravo, Vitigliano!”».
Con gli altri colleghi del nucleo vi sentite ancora?
«Certo! Abbiamo una chat chiamata “Sezione anticrimine Torino”. Qualcuno purtroppo non c’è più, ma con gli altri ci chiamiamo ancora con i soprannomi che avevamo in quegli anni: Trucido, Valcareggi, Calimero, Serpico, Venticello, Flash. Eravamo in pochi e potevamo contare su scarsissimi mezzi. Ricordo quando dovevamo provare i telefoni per le intercettazioni. Il tecnico dal piano di sopra urlava: “Ragazzi, si sente?”. Eppure, nonostante tutti questi limiti, alla fine abbiamo vinto noi».