Ho sentito e letto quanto detto da papa Francesco in merito all’aborto selettivo paragonato a nazismo in guanti bianchi. Non l’ho proprio capito. C’è un concetto che da sempre sembra del tutto estraneo alla Chiesa: la sofferenza. È raccontata come un tributo da pagare per meritare la salvezza, ma nel Vangelo tutto questo non viene detto, anzi. Gesù Cristo si trova a doverla affrontare in due momenti: la morte dell’amico Lazzaro che lo affiligge tanto da piangere e la presa di coscienza di dover soffrire e patire per tre giorni per salvare l’umanità. Nel primo caso risolve la sua sofferenza ridando la vita al suo caro amico, nel secondo sudando sangue nel chiedere al Padre di allontanargli il calice del sacricio.
Quindi la sofferenza è qualcosa che non appartiene al nostro credo, anzi. Perché, quindi, una madre che sa con certezza di dare la vita a un individuo destinato solo a soffrire dovrebbe prendersi questa responsabilità? Perché non chiediamo agli storpi e ai nani quanto soffrono, anziché prenderli come un esempio di umanità diversa? Gesù Cristo, quando si è imbattuto in persone con anomalie gravi, le ha miracolate per dare gioia alla loro vita, mica si è congratulato per il loro status di prediletti.
Io non ho mai abortito, ma una tragica malattia si è portata via mio figlio che a trentatré anni si è trovato a combattere con un tumore al cervello. Ha lottato per oltre due anni con la forza e il coraggio di chi vuole vivere. La sua sofferenza è stata però enorme ed è diventata insostenibile. Non l’ho mai visto sudare sangue, ma gli ho letto la sofferenza di Cristo quando si è reso conto di dover solo soffrire, e non solo per tre giorni, con l’unica certezza di dover presto affrontare la morte, per noi ancora un enigma mentre per Gesù, Figlio di Dio, solo un passaggio verso la Risurrezione.
Al suo funerale, nel salutarlo, gli ho detto: «Spero che la vita che ti ho dato abbia ripagato le sofferenze che la malattia ti ha fatto patire». Lo spero ancora, ma se qualcuno evita a un figlio sofferenze certe non lo ritengo «nazista in guanti bianchi», ma un buon cristiano che ama il suo Dio e la vita che questo gli regala.
GIANNA SIMONETTO
Cara Gianna, prima di tutto ti sono vicino per la perdita di tuo figlio e prego per te e anche per lui. La nostra fede ci assicura che anche noi risorgeremo con Cristo il quale, come scrive san Paolo, è come la primizia rispetto al grande raccolto che riguarda tutti noi; per mezzo di lui, infatti, anche noi riceveremo la vita, risorgeremo dai morti.
Vorrei però partire proprio da come hai salutato tuo figlio al funerale per farti capire la verità delle parole del Papa. «Spero che la vita che ti ho dato abbia ripagato le sofferenze che la malattia ti ha fatto patire», gli hai detto. Ed è proprio così: la sua vita valeva comunque la pena di essere vissuta. Se avessi saputo la sofferenza che avrebbe patito forse non l’avresti messo al mondo? E lui, avrebbe preferito non vedere la luce pur di non sopportare il dolore? Ogni vita è un dono di Dio e vale la pena di essere vissuta. Ogni sistema selettivo, invece, è fondamentalmente disumano. È celebre la frase che disse Madre Teresa di Calcutta ricevendo il premio Nobel per la pace nel 1979: «Se una madre può uccidere suo figlio, chi impedisce agli uomini di uccidersi tra di loro?».
Di questo papa Francesco ha parlato più volte, nel contesto di quella che lui chiama l’odierna «cultura dello scarto». Tra gli “scartati” di oggi, tra i deboli, i poveri di cui la Chiesa intende prendersi cura «ci sono anche i bambini nascituri», scrive in Evangelii gaudium (n. 213), «che sono i più indifesi e innocenti di tutti, ai quali oggi si vuole negare la dignità umana al fine di poterne fare quello che si vuole, togliendo loro la vita e promuovendo legislazioni in modo che nessuno possa impedirlo». Questa difesa della vita nascente, spiega Francesco, «è intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano. Suppone la convinzione che un essere umano è sempre sacro e inviolabile, in qualunque situazione e in ogni fase del suo sviluppo. È un fine in sé stesso e mai un mezzo per risolvere altre difficoltà». Se cade questa convinzione, conclude il Papa, «non rimangono solide e permanenti fondamenta per la difesa dei diritti umani, che sarebbero sempre soggetti alle convenienze contingenti dei potenti di turno».
Francesco, in Evangelii gaudium 214, è ancora più esplicito: «Non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana. Però è anche vero che abbiamo fatto poco per accompagnare adeguatamente le donne che si trovano in situazioni molto dure, dove l’aborto si presenta loro come una rapida soluzione alle loro profonde angustie». L’aborto, dunque, non è la soluzione, ma è doveroso non lasciar sole le donne e aiutarle, anche da parte delle istituzioni. Peraltro, la responsabilità maggiore di un aborto spesso non è delle donne, ma dei familiari e di chi le consiglia male.
Che dire, però, sul tema della sofferenza? Non siamo nati per soffrire e il Vangelo non ci invita a questo. Gesù, anzi, ha cercato di alleviarla per quanto possibile. Eppure il limite della nostra natura umana e la cattiveria degli altri ci porta a dover convivere con la sofferenza. Gesù stesso ha chiesto di evitare questo calice amaro, ma alla fine ha accettato di berlo. E non si trattava solo della sofferenza fisica, durata pochi giorni, ma del peso del peccato del mondo, un dolore che solo il Figlio di Dio poteva sostenere. Non ci ha però redenti la sofferenza di Cristo, ma il suo amore fino alla fine, fino alla morte di croce. È l’amore, unito a quello di Gesù nella sua passione, che dà senso anche alle nostre sofferenze. Basta pensare a quello di una madre per il proprio figlio, alle fatiche affrontate per accudirlo, sostenerlo e aiutarlo. C’è una bella immagine che Gesù stesso propone: «La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo». E Gesù conclude: «Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16,21-22). La gioia non si raggiunge evitando la sofferenza o eliminando una vita umana, ma soltanto con un amore fino alla fine.