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martedì 08 ottobre 2024
 
Diario dal Covid
 

Io, prete, nella malattia che ti spoglia del ruolo e ti costringe ad affidarti

16/04/2020  Don Franco Tassone, parroco del Ss. Salvatore a Pavia, convalescente dal Covid, ha accettato di condividere con noi il diario della sua esperienza, un messaggio di autenticità e di speranza: "Pensi di essere allenato e invece... le lacrime scalfiscono il ruolo che ricopri nella vita nel quale ti rappresenti inaffondabile"

Don Franco Tassone a Pavia è parroco del Ss. Salvatore, per anni raccogliendo l'eredità di don Enzo Boschetti per cui è in corso una causa di Beatificazione, ha guidato la Casa del Giovane, in prima linea contro tutte le dipendenze. Appena prima di Pasqua è stato dimesso dall'ospedale in cui ha combattuto e, per fortuna, vinto il covid, anche se la convalescenza richiederà qualche tempo. Durante gli ultimi giorni di ricovero (nelle foto la benedizione delle Palme e le dimissioni, condivise via WhatsApp con amici e parrocchiani) ha scritto questa pagina per tenere il filo della sua esperienza: righe molto autentiche, umanissime, cariche di fragilità e di speranza che ha accettato di condividere con noi. Abbiamo scelto di prenderle così com'erano al momento in cui sono state scritte, prima di Pasqua, per dare un messaggio di incoraggiamento a chi sta ancora in mezzo al guado.

Ricoverato alla Clinica di Malattie infettive del Policlinico S. Matteo di Pavia, mi sono trovato catapultato nell’orrore della pandemia e passerò la Pasqua a liberarmi da questa corona di ...spine. Sono sempre stato allergico alle Graminacee e le mi vie respiratorie si sono dilatate in tanti anni di allenamento a rincorrere i ragazzi della Comunità Casa del Giovane, di cui sono diventato responsabile dopo la morte del Fondatore, il Servo di Dio don Enzo Boschetti: compiuti 30 anni, appena diventato sacerdote ho respirato a pieni polmoni la responsabilità e ho sperimentato il fiato corto che si prova nella costante tensione a dare vita e speranza a chi non vuole vincere la paura di morire. Questa tensione verso la vita non mi ha mai abbandonato e così ho provato a insegnare, a collaborare con le istituzioni, a inventare progetti con l’unico scopo di salvare qualcuno, se non proprio molti. Qui finisce l’aspetto biografico retrospettivo.

Ora, mi trovo in un’altra battaglia, inaspettata e terribile, a condividere il campo con coraggiosi compagni: il mio confratello che ha donato ad un giovane il suo respiratore, i sacerdoti morti per rispondere alla loro chiamata e per stare insieme al proprio popolo, gli anziani nelle case di riposo, negli ospedali, nei pronto soccorso, i medici, gli infermieri e gli oss che si sacrificano da mesi per alleviare la fatica di coloro che sono stati colpiti da una malattia che è diventata pandemia. E il pensiero torna indietro al cuore ferito della Lombardia, dove le condizioni climatiche hanno visto le polveri sottili sostituire la nebbia, ai ritmi frastornanti di incontri senza più giorno né notte, alle fasulle strette di mano e ai contagi empatici che non nutrono più. E ancora si allarga allo sfruttamento sconsiderato del suolo, al terreno violato e reso produttore di gas letali e di mangime nocivo, all’acqua inquinata, alla cieca avidità che sta distruggendo i polmoni della terra, allo sfruttamento sconsiderato degli animali, all’intensificazione delle produzioni che hanno distribuito lavoro e ricchezza in modo diseguale…ora ci siamo fermati.

Davanti a un sistema sanitario territoriale rapinato dalla volontà di contenere la spesa siamo stati costretti ad erigere ospedali da campo con personale straniero, siamo stati toccati dall’angoscia di morire da soli, dalla paura del bombardamento di notizie, dove chiunque parli si sente virologo, dalla privazione delle libertà costituzionali che, uniche, ci hanno permesso di frenare il contagio, ma non di vincerlo. Ci siamo fermati nell’angoscia profonda, quando ti prende la fame di aria, la paura di non avere più appetito, le scariche continue nel tuo bagno e il terrore che il tampone ti condanni e ti trascini nel vortice della respirazione forzata. Sono stato in debito di ossigeno davanti a una dottoressa che, con l’inganno, promettendomi che non mi avrebbe fatto ricoverare, mi ha diagnosticato il coronavirus. Ho subito pensato a quale fratello o sorella ho visitato in un gesto fraterno trasformatosi in malattia contagiosa, a quale incontro abbia cancellato con un colpo di spugna il dubbio sull’onnipotenza e mi sono visto trascinare in un mondo di sofferenza, di sperimentazioni, di esami continui, di speranza di tornare a casa, tra gente chiusa nei respiratori con due soli buchi, uno per respirare e uno per bere. Sono stato, così, nella camera dove era appena morto un mio fraterno amico, sono stato completamente rivoltato, come un calzino, nel tentativo di capire se la polmonite aveva creato altri problemi curabili solo in terapia intensiva. Ed eccomi ancora qui, dopo quindici giorni, a raccontare l’enorme numero di persone intubate con cui ho condiviso la prima notte, la paura negli occhi stanchi dei giovani dottori, la diagnosi che diventava certezza e la ricerca del posto letto…e finalmente passata la paura della prima notte, i primi interventi sul controllo della terapia, la cura di avere sempre il supplemento respiratorio, il tampone, l’esame del sangue, la richiesta di aderire ai più recenti protocolli sia di cortisone sia di terapie per le patologie reumatiche. Sei costretto a compiere un atto di fiducia, perché non hai nessun altro contatto sociale e sei nelle mani di chi ti solleva un attimo e ti monitora per avere da te quei risultati che tardano sempre a venire. Così passano i giorni, divori quello che ti danno da mangiare, ti commuovi dei gesti di amicizia e senti che sei, come tanti, nel segno di una provvidenza infinita. Puoi solo affidarti, le vene sono ormai tutte segnate, il braccio si è gonfiato e le lacrime scalfiscono il ruolo che ricopri nella vita, nel quale ti rappresenti inaffondabile.

Tutta la giornata trascorre nella preoccupazione per la tua salute, strappato da tale pensiero solo dall’umanità dei sanitari, deluso dal ritardo del momento in cui lascerai la tua camera d’ ospedale, stufo di ogni misurazione e di ogni ricerca di cause e di effetti sul tuo corpo. Poi, il primo tampone negativo, il respiro meno affannoso, il ritorno dell'appetito, la ricerca del contatto umano, l’aiuto reciproco nella stanza, le piccole delicatezze.

Attendo un periodo pasquale in cui davvero i simboli della vita siano come la primavera che fiorisce in un corpo che sembrava morto, risveglia i profumi e si libera delle fatiche del fisico, riacquistando la bellezza dell’incontro umano. Sono ancora convalescente, devo la mia vita ai sanitari, non trascurerò questa lezione, imparerò a non esagerare e a non pretendere, e cercherò di far fiorire la stagione della fraternità.

                                                                                                                                                                don Franco Tassone

 
 
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