«Una donna che sa più di un uomo è un pericolo». La sorella e il marito lo ripetevano sempre a Rania nei lunghi anni in cui l’hanno usata come una schiava in attesa di riportarla in Marocco, una volta maggiorenne, per farla sposare con un uomo molto più grande di lei. Il suo sembrava un destino già scritto, simile a quello di Sana Cheema, la 25enne italo-pachistana strangolata perché al posto dell’uomo imposto dalla famiglia voleva sposare un italiano. I parenti che l’hanno uccisa, tra cui il padre, sono stati di recente assolti nel processo che si è celebrato in Pakistan. Rania invece può raccontare la sua storia, anche se, confessa, «ieri notte, sapendo che ci sarebbe stata l’intervista, ho avuto un incubo e mi sono svegliata piangendo».
Rania è nata in Marocco e lì è vissuta felice fino a 11 anni, quando per la prima volta ha incontrato la sorella maggiore che viveva in Italia con il marito in una città del Nordest. «Mi propose di passare le vacanze con loro, così mi sarei potuta occupare del loro bambino appena nato». Rania accetta, non immaginando quello che la aspetta: «Mi dissero che, oltre a badare al bambino, avrei dovuto occuparmi di tutte le faccende di casa: lavare, stirare, pulire. Un uomo in Marocco nel frattempo avrebbe dato loro dei soldi per poi sposarmi. Mio padre era d’accordo, tanto che una volta è venuto a trovarci e quando gli ho detto che non avrei mai accettato, mi ha riempita di botte».
Violenze che subiva ogni giorno anche dalla sorella e dal cognato. «Un pomeriggio sono andata a prendere il bambino all’asilo. Quando mia sorella ha visto che aveva il vestitino un po’ sporco, mi ha preso per i capelli e mi ha trascinata giù dalle scale». Ma la sofferenza più grande era non poter più andare a scuola. «Mi piaceva così tanto, ma loro non volevano. Per fortuna, la vicina di casa ha capito che qualcosa non andava e ha chiamato i carabinieri. Dopo qualche giorno è venuta un’assistente sociale a dir loro che erano obbligati a mandarmi a scuola e così sono stati costretti a farlo. Ero felicissima, anche se in tre anni non ho mai potuto invitare un’amica, o andare a una festa o in gita. Quando ho finito, mio cognato mi ha trovato lavoro in un’azienda di prodotti elettrici, dove tutti mi hanno subito voluto bene. Spesso notavano i miei lividi e cercavano di convincermi a denunciare, ma avevo paura che mi riportassero in Marocco. Speravo che i soldi che portavo a casa li convincessero a lasciarmi stare».
Ma una sera, poco dopo aver compiuto 18 anni, Rania dopo aver bevuto un frullato sente arrivare un gran sonno: «Mi sono risvegliata dietro il sedile posteriore dell’auto di mio zio e di mia sorella. Avevo lo scotch intorno alla bocca, le mani e i piedi legati e una coperta sopra di me. Così siamo andati in Spagna e poi in nave in Marocco». Quando arrivano a casa dei genitori, il padre di Rania non c’è e questa è stata la sua salvezza: «Loro mi avevano portata lì perché speravano che mia madre mi avrebbe convinta a sposarmi. Ma lei appena mi ha vista si è messa a urlare contro di lui: non riuscivo a stare in piedi, avevo le dita viola e la faccia lacerata dallo scotch. Mio cognato ci ha aggredito entrambe: se non fosse stato per mia nonna che si è messa in mezzo, chissà come sarebbe finita».
Quella stessa sera, Rania trova le forze per scappare e raggiungere un call center: «L’unico numero che ricordavo era quello del mio datore di lavoro. Mi ha risposto e mi ha detto che proprio in quel momento lì c’erano i carabinieri perché lui aveva denunciato la mia scomparsa. Loro mi hanno consigliato di rivolgermi al consolato italiano». Dopo tre mesi, Rania riesce a ritornare nella sua città. La prima cosa che fa è denunciare la sorella e il cognato che nel frattempo erano tornati pure loro, convinti che tanto non avrebbe mai fatto nulla. E invece si ritrovano prima in carcere e poi su un aereo con un foglio di espulsione.
Rania può così finalmente iniziare una nuova vita, anche se è costretta a cambiare città perché in giro sono rimasti altri parenti che hanno giurato di fargliela pagare. «Ho avuto troppa paura, la stessa che vedo in tante ragazzine che camminano con gli occhi bassi. Per questo ho accettato di raccontare questa storia: la salvezza dipende solo da noi donne». Una volta però non ci ha visto più: «In treno un uomo molestava una ragazza. Erano entrambi di origine araba. Le scattava delle foto con il cellulare, anche se si capiva benissimo che lei non voleva. Allora gliel’ho strappato dalle mani e l’ho buttato dal finestrino. Gli altri passeggeri hanno iniziato ad applaudire e a insultarlo e lui se n’è andato. Ma fino a quel momento nessuno aveva mosso un dito».
(Disclaimer: l'immagine in alto non ritrae Rania)