Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (Reuters).
Possiamo considerare "strano" che un Paese come Israele tratti da "nemico" un Paese come l'Iran che ha avuto un Presidente, Mahmoud Ahmadinejad, che un giorno sì e un giorno no parlava di distruggere Israele? Che ha una Guida Suprema, l'ayatollah Alì Khamenei, che dice cose come "contro il barbarico e infanticida regime di Israele... non c'è altra cura che l'annientamento"? Che ospita regolarmente convegni impegnati a negare l'Olocausto?
Se Benjamin "Bibi" Netanyahu occupa tutti i canali Tv americani per prendersela con l'accordo raggiunto a Losanna tra Iran e "5+1" (Usa, Regno Unito, Russia, Cina e Francia più Germania) non c'è quindi da stupirsi né da condannarlo. Il problema è un altro: dobbiamo credere a tutto ciò che Netanyahu dice? E: per amore di Israele dobbiamo essere per forza d'accordo con lui?
In questo caso la risposta è "no". Netanyahu, per fare al meglio i legittimi interessi di Israele, agita davanti ai nostri occhi il drappo rosso della sicurezza del Paese e ventila la minaccia della bomba atomica iraniana. Subito dopo l'accordo di Losanna ha detto che in meno di un anno l'Iran potrebbe arrivare alla bomba. Ed è quanto Israele (che la bomba atomica invece ce l'ha, e fuori da qualunque accordo o controllo internazionale) cerca di spiegare al mondo da almeno dieci anni.
La verità è che l'Iran non ha mai avuto la bomba, non ce l'ha adesso né l'avrà in futuro. Ed è bene che sia così. Altra verità: i controlli internazionali sul nucleare hanno funzionato. Perché quindi non dovrebbero funzionare in futuro? Il dispositivo "tecnico" dell'accordo di Losanna è stato spiegato molto bene da molti e non occorre qui dilungarsi. In sintesi: l'Iran si impegna a ridurre di due terzi le centrifughe per arricchire l'uranio (procedimento indispensabile per arrivare alla bomba); il residuo arricchimento avverrà in un solo impianto, sottoposto a regolari controlli dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, e non supererà la percentuale del 3,67%, quando la soglia per l'uso militare dell'uranio è del 5%.
Niente bomba, quindi. L'altra grande motivazione di Netanyahu è che l'annullamento graduale delle sanzioni economiche farà affluire nuovi capitali in Iran, alimentando quella che il premier israeliano chiama la "macchina del terrore". Questa è un argomento assai più serio: l'Iran appoggia Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza, per dire di due minacce dirette nei confronti di Israele, oltre che gli Houthi in Yemen, Assad in Siria, il Governo sciita in Iraq.
Sotto questo aspetto, però, anche se è politicamente poco corretto dirlo, gli interessi dell'Occidente e quelli di Israele non necessariamente coincidono. Perché ad aver alimentato il fuoco della guerra in Medio Oriente, in questi anni, non è stato l'Iran con la sua "corsa alla bomba" ma soprattutto la vasta galassia dei Paesi arabi sunniti con cui Israele ha ultimamente stretto i rapporti.
Qualche giorno fa, l'ambasciatore di Israele in Italia, Naor Gilon, in un articolo su uno dei nostri quotidiani ha parlato di essi come di "Paesi arabi pragmatici". Purtroppo i Paesi sunniti, e in particolare le monarchie del Golfo, sono più o meno direttamente responsabili dei talebani afghani, di Al Qaeda (11 settembre compreso), dell'Isis, degli attentati in Iraq, del soffocamento nel sangue della Primavera araba in Bahrein, della rinascita dei Fratelli Musulmani, del finanziamento della guerriglia islamica cecena in Russia. Con relative minacce di genocidio ai danni dei cristiani e di altre minoranze del Medio Oriente. Un pragmatismo un po' costoso, pare.
Ognuno si sceglie gli alleati che preferisce e che più rispondono alle esigenze del proprio Paese, è chiaro. E tutto si può dire tranne che Israele si trovi in una posizione comoda. Ma come per la bomba: di che cosa stiamo parlando esattamente? Queste cose Netanyahu le sa benissimo. La sua furia contro l'accordo di Losanna, allora, nasce da altre considerazioni ed è forse simile, nella sua natura, a quella che trapela dall'Arabia Saudita. L'uno e l'altro Paese hanno soprattutto paura di perdere il potere di condizionamento che per decenni hanno avuto sugli Usa e, di conseguenza, sulla politica occidentale in Medio Oriente. Il motto americano era: mai scontentare Israele o l'Arabia Saudita. Piuttosto non si fa nulla. Ora qualcosa sta cambiando, o rischia di cambiare.
L'Iran non sarà mai sullo stesso piano del regno saudita o dello Stato ebraico, in certi rapporti internazionali. Però è un terzo incomodo, una variabile di cui sia Netanyahu sia re Salman farebbero volentieri a meno. Lo si vede bene ora che si tratta di combattere l'Isis: l'Iran si impegna sul campo di battaglia in Iraq, l'Arabia Saudita muove un passo ma solo per invadere lo Yemen. Per non parlare di Israele, che l'Isis l'ha quasi ai confini ma ha sparato solo per uccidere un generale iraniano in trasferta in Siria.