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martedì 17 settembre 2024
 
diritti delle donne
 

Iran, la Ct della squadra di sci femminile non può lasciare il Paese

18/02/2021  La head coach Samira Zargari non ha potuto seguire le sue atlete ai mondiali di Cortina perché suo marito non le ha concesso il permesso di partire. Nella Repubblica islamica la legge ancora discrimina le donne e relega quelle sposate in condizione di sottomissione rispetto ai coniugi che, ad esempio, possono proibire alle mogli di svolgere determinate professioni

(Foto Reuters sopra: sciatrici e sciatori su una pista in Iran)

La squadra femminile iraniana di sci alpino è partita alla volta dell’Italia, per i Mondiali di sci a Cortina. Ma senza la sua Ct. La head coach Samira Zargari è rimasta a casa, in Iran, perché suo marito le ha proibito di partire e lasciare il Paese. Secondo le legge della Repubblica islamica, una donna sposata ha bisogno del permesso scritto del marito per ottenere il passaporto o viaggiare fuori dal Paese. Come ricorda il rapporto 2021 di Human rights watch sui diritti umani nel mondo, le donne iraniane sono ancora soggette a discriminazioni e forti limitazioni dei loro diritti in materia di matrimonio, divorzio, eredità e decisioni che riguardano i figli. Secondo il codice civile, il marito ha il diritto di scegliere il luogo di residenza della famiglia e ha la facoltà di vietare alla moglie determinate occupazioni lavorativa se queste sono ritenute contrastanti con i “valori familiari”. In un tribunale, inoltre, la testimonianza di un solo uomo equivale a quella di due donne.

In Iran non esiste una legge contro la violenza domestica e nel periodo del lockdown a causa del Covid-19 sia le autorità che le organizzazioni per i diritti delle donne hanno registrato un forte aumento dei casi di violenza di genere all’interno delle mura domestiche. Negli ultimi anni numerose attiviste per i diritti femminili sono state arrestate, alcune di loro a causa delle proteste pacifiche contro l’obbligo dell’hijab, il velo islamico - introdotto dopo la Rivoluzione islamica del 1979 -, reclamando che indossare il velo dovrebbe essere una libera scelta di ogni singola donna e non un’imposizione dall’alto. Attviste come Saba Kord-Afshari, detenuta nella prigione di di Evin a Teheran, arrestata nel 2019 per il suo rifiuto di coprirsi il capo con l’hijab e e condannata a 24 anni complessivi di carcere, secondo il codice penale islamico, per “aver incoraggiato le persone a commettere immoralità e/o prostituzione”, per “associazione e collusione contro la sicurezza interna ed esterna”, per “propaganda contro il sistema”. Le sono state inoltre vietate le attività social.

La campagna di Amnesty International per la liberazione di Nasrin Sotoudeh (foto Ansa).
La campagna di Amnesty International per la liberazione di Nasrin Sotoudeh (foto Ansa).

Va ricordato il calvario di Nasrin Sotoudeh, 57enne avvocata e attivista per i diritti umani, vincitrice nel 2012 del Premio Sakharov del Parlamento europeo per la libertà di pensiero. La Sotoudeh è in carcere dal 2018, a marzo del 2019 è stata condannata a 33 anni di reclusione e 148 frustate a causa della sua attività legale in difesa e rappresentanza delle donne iraniane che protestano contro l’obbligo del velo. Il 7 novembre del 2020 l’attivista aveva ottenuto un rilascio temporaneo perché risultata positiva al Covid-19. Ma la sua libertà è durata meno di un mese: ai primi di dicembre le autorità giudiziarie hanno ordinato di riportarla in carcere. L’Iran è il Paese del Medio Oriente più gravemente colpito dal virus: lo scorso settembre la Sotoudeh aveva terminato uno sciopero della fame di 45 giorni per chiedere il rilascio del detenuti a causa della diffusione del Covid nelle carceri, e la sua salute era già fortemente indebolita.

E’ finito invece l’incubo di Narges Mohammadi, anche lei famosa attivista iraniana, vicepresidente del Centro per i difesori dei diritti umani, Ong fondata e presieduta dall’avvocata, Premio Nobel per la pace nel 2003, Shirin Ebadi, da anni in esilio in Gran Bretagna. Arrestata a maggio del 2015 - come ricorda Amnesty International -  e condannata nel 2016 a 16 anni di carcere per “collusione contro la sicurezza nazionale” e “propaganda contro lo stato”, la Mohammadi è stata rimessa in libertà l’8 ottobre del 2020. La Ebadi aveva levato la sua voce e lanciato appelli per la liberazione dell’amica e collega detenuta, che pur essendo gravemente malata non aveva il permesso neppure di essere visitata da un medico. L’attivista è uscita di prigione fortemente provata e in cattive condizioni di salute. Ma ora è libera. Il cammino delle donne iraniane non si arresta.

 
 
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