Volontari iracheni in armi per combattere contro i miliziani qaedisti (Reuters).
La rapida avanzata dei miliziani dell'Isis in Iraq, pur sorprendente, pare destinata a produrre risultati effimeri. Da Nord i curdi stanno riconquistando terreno (hanno ripreso Kirkuk, centro decisivo anche per le raffinerie), approfittando della situazione anche per consolidare il proprio "peso" nei confronti del potere centrale di Baghdad. A Sud gli sciiti si stanno mobilitando, anche dietro le pressioni del clero e del grande ayatollah Al Sistani. Al centro, il premier Nur Al Maliki sembra se non altro in grado di fermare la rotta dell'esercito, in attesa magari dell'appoggio aereo degli Usa.
I miliziani che simpatizzano per Al Qaeda, al contrario, non hanno retrovie né catena di rifornimenti. Possono al più rientrare in Siria e disperdersi nella guerra civile, come già fecero qualche mese fa dopo l'effimera occupazione di Fallujah. Certo, la loro avanzata testimonia una volta di più il disastro della politica Usa in Medio Oriente. Ma non è certo questo che a loro interessa.
Sul campo, dunque, la crisi può rientrare. Ma il fatto stesso che sia esplosa ha messo tutto il resto in movimento. La Casa Bianca, che solo pochi mesi fa aveva rifiutato al Governo dell'Iraq una serie di aiuti militari, oggi muove le portaerei per aiutare quello stesso Governo. Per Obama, infatti, l'Iraq non può cadere e nemmeno spezzarsi in tre tronconi, Kurdistan a Nord, Stato sunnita-qaedista al centro ed entità sciita al Sud. L'una e l'altra ipotesi avrebbero come conseguenza l'aumento dell'influenza regionale dell'Iran e un insopportabile tasso di rischio per l'Arabia Saudita, fedelissima alleato degli americani.
Ma non solo. Se la crisi in Iraq diventasse ancor più drammatica, ci sarebbero forti contraccolpi sul mercato del petrolio. Il prezzo oggi è stabile, poco sopra i 100 dollari a barile. Ma l'Iraq produce oggi 3,5 milioni di barili al giorno, che dovrebbero essere 6 intorno al 2020. Se la produzione, assorbita soprattutto da India e Cina, al contrario calasse, ne uscirebbe rafforzato il potere contrattuale politico di Paesi che sono importanti produttore ma non sono particolarmente graditi alla Casa Bianca: Russia, lo stesso Iran, il Venezuela.
Quanto accade oggi in Iraq, inoltre, ha un forte impatto sull'Iran che, per ragioni assai diverse da quelle degli Usa ma ugualmente stringenti, non può permettersi di "subire" la caduta di un regime tutto sommato amico come quello del premier sciita Al Maliki. Non solo: un eventuale staterello terroristico sunnita dominato dall'Isis sarebbe per Teheran, da anni impegnata a resistere all'assedio sunnita guidato soprattutto dall'Arabia Saudita, una vera tragedia.
Per questo l'Iran si è offerto di collaborare con gli Usa per agire contro l'avanzata dell'Isis in Iraq. Collaborazione che, ovviamente, non sarebbe gratuita ma avrebbe riflessi imprevedibili su un'altra questione decisiva per il futuro del Medio Oriente: l'accordo per regolamentare il nucleare in Iran. Gli uomini di Obama e gli inviati degli ayatollah e del presidente Rouhani stanno trattando da mesi. E' ovvio che un'eventuale convergenza sulla crisi irachena potrebbe sciogliere i rapporti anche in altri campi.
Resta un quadro generale sconfortante. La guerra civile in Siria non rallenta, l'Iraq è di nuovo massacrato da stragi quotidiane (preparate, ricordiamolo, da lunghe sequele di attentati cui nessuno, in Occidente, prestava attenzione) e dal dramma di centinaia di migliaia di profughi. Nell'uno come nell'altro caso le potenze, quelle vere e quelle presunte tali, continuano nei loro giochi strategici. Sempre uguali a se stessi (fornisco un po' di armi a questo, organizzo qualche bombardamento), soprattutto nei fallimenti.