(Sopra: i funerali delle vittime dell'attacco terroristico a Tanta, in Egitto, sabato scorso)
La visita di papa Francesco in Egitto, che dovrebbe avvenire tra pochi giorni, non poteva incontrare clima più preoccupante. Perché ciò che è bene chiarire subito è che gli attentati alle chiese copte di Tanta e Alessandria, e i 47 morti che hanno provocato, non sono un'iniziativa isolata ma l'ennesimo capitolo di una strategia con cui il jihadismo ispirato dall'Isis punta a eliminare la presenza cristiana.
Quando si parla dei cristiani in Medio Oriente, quasi tutti riportano il discorso al tema delle minoranze più o meno minacciate. Il che è ragionevole ma insufficiente. In molti Paesi della regione il discorso sui cristiani non può risolversi con una conta. In Libano, in Siria, in Iraq occorre fare anche una valutazione qualitativa. Il peso e l'influenza che i cristiani hanno (o meglio avevano) in quelle società, e in settori decisivi come l'educazione, la scuola, la sanità, era ed è assolutamente superiore a quanto i meri numeri farebbero credere.
La presenza dei cristiani, inoltre, grande o piccola, influente o poco significativa, basta da sola a dare un volto diverso a quelle società. Da monolitiche (in Egitto i musulmani sunniti sono circa il 90% della popolazione) o esposte a un continuo scontro etnico-settario (in Siria sunniti e sciiti insieme arrivano oltre il 90%, l'Iraq era tripartito tra sunniti, sciiti e curdi), grazie alla presenza dei cristiani e di altre ancora più esigue minoranze, esse si trovano comunque ad affrontare il tema della diversità, di una presenza davvero plurale.
Proprio per questo, al di là del tema sopravvalutato della “guerra di religione”, il jihadismo da sempre punta a spazzar via questa presenza. Sanno, gli Al Baghdadi di turno, che annientare i cristiani significa disgregare la società intera, privarla di uno dei collanti decisivi. Dove per “annientare” non si deve pensare all'eliminazione totale di una presenza. Basta intimidire i cristiani, spingerne molti a fuggire, farli rinunciare alle attività pubbliche, ridurre la loro visibilità, rendere ininfluenti le loro opere. Figuriamoci poi se questo avviene in un Paese come l'Egitto, dove i copti sono il 9% della popolazione e rappresentano la più antica presenza nella terra del Nilo, visto che il loro nome viene dal greco e significa, per antonomasia, Egitto. Un Paese che, con il colpo di Stato dei militari guidati da Al Sisi, vive da anni una feroce repressione e, nello stesso tempo, lo scivolamento verso la militanza armata di frange importanti dei Fratelli Musulmani, soprattutto di quelle più giovani.
Papa Francesco, dunque, approderà tra poco in una terra che vive tanti drammi ma che, come già l'Iraq e la Siria, è investito da una precisa strategia di eliminazione della presenza cristiana. Lo dimostrano gli eventi del Sinai, dove negli ultimi anni tale strategia si è dispiegata con una ferocia che ha pochi precedenti. Tre anni fa, in quella regione, i jihadisti del gruppo Ansar Bayt al-Maqdis hanno giurato fedeltà all'Isis e da allora, grazie anche alla vasta rete di complicità tessuta presso le tribù beduine, sempre ribelli al potere centrale del Cairo, resistono alla presenza di 30 mila uomini dell'esercito e della polizia (che hanno pagato un tributo di sangue altissimo al terrorismo) e alla collaborazione tra le forze di sicurezza egiziane e i servizi segreti di Israele. Si è prodotto uno stallo, dal punto di vista militare né le forze governative né quelle islamiste riescono ad avere il sopravvento.
Proprio per questo, il tentativo eversivo si è concentrato sull'obiettivo di sradicare il pilastro chiamato presenza cristiana. I cristiani del Sinai sono stati sottoposti a un tentativo di pulizia etnica identico a quello condotto dall'Isis in Iraq, a Mosul e nella Piana di Niniveh. Poche settimane fa, l’Isis ha diffuso un video in cui un uomo mascherato, che ha detto di chiamarsi Abu Abdallah al-Masri, si è autoaccusato dell’attentato compiuto in dicembre contro la cattedrale copta di San Marco, al Cairo, costato la vita a 28 persone, e ha incitato i militanti e i simpatizzanti a colpire i cristiani del Sinai. Le autorità egiziane sostengono di aver identificato l’uomo mascherato: si tratterebbe di Mahmoud Shafik, uno studente di 22 anni che era stato per due mesi in prigione nel 2014 e che, una volta uscito, era corso ad arruolarsi nell’Isis.
Il fatto importante, però, è un altro. Subito dopo la diffusione del video, sette cristiani sono stati uccisi nella città di Al Arish nel pieno di una campagna di minacce rivolte in modo specifico contro la comunità cristiana. Scritte sui muri delle case dei cristiani, telefonate minatorie, atti vandalici contro le proprietà dei cristiani, insulti per strada. Sempre con lo stesso ritornello: andatevene o vi uccideremo tutti. Sono state inoltre fatte circolare fotografie di esponenti di spicco della comunità cristiana o di personalità musulmane che hanno difeso i cristiani, con l’incitamento a colpirli. Da sporadiche le violenze sono diventate sistematiche.
Il risultato di questa campagna è stato il primo vero esodo di cristiani dalla penisola del Sinai, dramma più silenzioso ma anche più insidioso delle bombe nelle chiese. E' questo il contesto in cui si inserisce la visita di papa Francesco. Il quale, da fine interprete dei problemi planetari, non potrà ignorare un altro dramma, tutto “politico”. I cristiani d'Oriente, in Egitto come in Siria, vivono la crisi stando sul lato della barricata esattamente opposto a quello più praticato dai cristiani d'Occidente. Loro con Al Sisi e Bashar al-Assad, noi con i tentativi di esportazione della democrazia che spalancano le porte al jihadismo. Loro con chi li protegge anche usando il pugno di ferro. Noi con chi li sgozzerebbe. Facciamoci delle domande.