«Le confesso una cosa: faccio questo lavoro da più di vent’anni e non sono stata mai minacciata. Adesso però per la prima volta ho paura e ho deciso di non fare più apparizioni pubbliche. Non perché lo stato islamico vuole fare del male alla sottoscritta ma perché ci troviamo in una situazione tale per cui basta la presenza di un occidentale, come dimostrano gli attentati di Parigi e Copenaghen, per indurre questi terroristi a colpire». Loretta Napoleoni, economista, esperta di terrorismo internazionale, si trova ad Amsterdam per promuovere il suo ultimo libro Isis. Lo Stato del terrore (Feltrinelli) in un tour che toccherà, tra le altre città, anche la capitale danese . Nella Libia dilaniata dalle lotte tra milizie e con due governi, uno a Tripoli di matrice islamica e l’altro a Tobruk riconosciuto dalla comunità internazionale, gli jihadisti di Isis che hanno preso il controllo di Derna e Sirte sono arrivati a minacciare il nostro Paese mentre gli italiani sono dovuti scappare.
Partiamo da qui. L’intervento militare in Libia è la migliore situazione possibile in questo momento?
«Credo sia la scelta peggiore che possiamo fare. Abbiamo già visto che la guerra ha prodotto destabilizzazione sia in Iraq che in Libia a meno che non sia un intervento militare di lunghissimo periodo e questo significa tornare a una forma di neo colonizzazione e questo è impossibile dal punto di vista politico e inaccettabile dalla popolazione occidentale. L’unica strada è quella prospettata da papa Francesco qualche mese fa: dialogo e diplomazia».
Bastano secondo lei?
«Bisogna provare però non con le modalità della diplomazia occidentale moderna, tipica da guerra fredda, ma quella del XVIII secolo in cui si inizia lavorare sotto traccia, informalmente, cercando di capire esattamente quali sono gli obiettivi del nemico per poi organizzare una risposta ragionevole. Rispondere istintivamente, paventando attacchi armati immediati, ai video di propaganda è la cosa peggiore che la diplomazia occidentale possa fare».
Quali sono gli obiettivi dell’Isis, cosa vuole?
«Dobbiamo capirlo. Per ora quello che succede al di fuori di Siria e Iraq, dove l’Isis è presente, è un tentativo di emulazione dovuto al fatto che lo stato islamico è diventato un ombrello ideologico, un marchio doc del jihadismo. In Libia il gruppo che oggi minaccia guerra fino a pochi giorni fa apparteneva probabilmente ad Al Qaeda e non è nato insieme all’Isis. Questo è un tassello importante per capire le dinamiche delle alleanze che vanno costruendosi».
La copertina del libro di Loretta Napoleoni
Fino a poco tempo fa si minimizzava l’idea del califfato.
«Il califfato è quello che si trova nel territorio controllato dall’Isis, ossia Siria e Iraq. È gestito in maniera molto pragmatica. Il suo leader, Abu Bakr al-Baghdadi sa bene che è impossibile invadere tutti i paesi limitrofi ridisegnando la mappa del Medio Oriente sulla base della sola forza militare. Però hanno una strategia di lungo periodo che passa dalla conquista di Baghdad e dal consolidamento della posizione raggiunta. Una volta fatto questo, vogliono agire da esempio per tutti gli altri paesi generando una sorta di rivoluzione nel mondo arabo. L’idea che l’Isis invada l’Arabia Saudita mi sembra improbabile perché non ce la farebbero mai, preferiscono lavorare ai fianchi minando l’equilibrio interno di quel paese. Però questa è una supposizione in base ai miei studi. Ad oggi non sappiamo cosa vuole questo nemico. L’errore dell’Occidente è quello di non usare il cervello e la razionalità per affidarsi a a risposte istintive come minacciare di bombardare dopo i video diffusi dalla propaganda dell’Isis. Noi dovremmo appoggiarci in questo momento da un lato alla Turchia, se si riesce a convincerla a fare questo, e dall’altro al Vaticano perché è l’unico in grado di lavorare sotto traccia, a livello diplomatico. Mi sembra che il Papa oggi sia l’unico vero politico che abbiamo a livello internazionale».
Perché?
«Ha capito che solo attraverso la strada diplomatica e del dialogo si può arrivare alla risoluzione di questo problema. Che non arriverà nel breve periodo, ovviamente, ma sarà questione di anni e anni. Abbiamo fatto la guerra nel 2003 distruggendo il movimento jihadista iracheno e oggi ce lo ritroviamo in Siria e in Iraq dieci volte più forte. È chiaro che la soluzione bellica non funziona. A meno che, in ossequio a chi dice che in Libia era meglio quando c’era Gheddafi, non appoggiamo dei governi dittatoriali. Nessuna di queste soluzioni a mio avviso è accettabile. Beninteso, sono tutte soluzioni possibili ma difficili da sostenere davanti all’opinione pubblica europea».
Chi finanzia l’Isis?
«All’inizio, nel 2010, quando Abu Bakr al-Baghdadi è diventato il leader dopo la prigionia nel carcere di Camp Bucca, sud dell'Iraq, abbandonato dagli americani, il gruppo si è spostato in Siria e qui è stato finanziato, assieme ad altri gruppi, dai sauditi, dal Qatar e dal Quwait che volevano un cambiamento di regime a Baghdad. Questo è stato un elemento fondamentale. Se non avessero avuto quei soldi non ce l’avrebbero fatta. Poi, tra il 2012 e il 2013, sono riusciti a conquistare delle posizioni strategiche e hanno consolidato il controllo di un territorio molto ampio utilizzandolo come fonte di finanziamento. Certo, arrivano anche i soldi dalle donazioni da parte di simpatizzanti stranieri e dei familiari e amici dei combattenti. E questo aiuta. Però la ricchezza fondamentale che tiene in piedi sia la guerra di conquista che la gestione dello Stato è il controllo di un territorio più grande della Francia all’interno del quale lo stato islamico è lo Stato: quindi ci sono tassazioni, joint venture con le tribù locali per lo sfruttamento delle risorse petrolifere. Tutte forme di autofinanziamento».
Il leader dell'Isis Abu Bakr al-Baghdadi
Allora non si tratta solo di predoni che saccheggiano e fuggono via.
«Non sono i talebani, certo. Vogliono rimanere e consolidarsi e per fare questo cercano il consenso popolare senza il quale, nel lungo periodo, non ce la fanno a mantenere un territorio così vasto. Per questo portano avanti la pulizia etnica. Vogliono creare uno Stato il più omogeneo possibile, non multietnico, e quindi più facile da controllare. Sono tutte strategie moderne e pragmatiche. Loro fanno più realpolitik di noi che l’abbiamo inventata».
Quali sono i punti deboli dell’Isis?
«A livello di propaganda finora sono riusciti a tenere alta l’attenzione. Se riusciamo a spezzare questa sorta di seduzione che esercitano soprattutto sui giovani a loro mancherebbe l’ossigeno. Ricorda un po’ la guerra in Spagna quando le brigate comuniste andavano lì a combattere contro i franchisti. In quel caso l’ossigeno veniva da fuori e senza questo aiuto la guerra civile spagnola sarebbe durata molto meno. Il problema che l’attuale classe politica occidentale ragiona sempre nel brevissimo periodo».
Dopo Parigi, Copenaghen. Sembra che i servizi di intelligence europei non riescano più a fermare gli attentatori.
«L’intelligence si trova in grandissima difficoltà. Qui non abbiamo a che fare con organizzazioni terroristiche organizzate, con una struttura piramidale, ma siamo di fronte a un fenomeno del tutto nuovo. Si tratta di gente autodidatta, che si indottrina online e grazie ai social media come hanno dimostrato i casi di Parigi e e Copenaghen. È quasi impossibile tenere sotto controllo tutti i potenziali terroristi per il semplice fatto che ce ne sono troppi. A questo aggiungiamo il fatto che l’antiterrorismo ha subito in tutti i paesi europei grossi tagli a causa della crisi».