Miliziani dell'Isis dopo la conquista di Palmira, in Siria.
Dai e dai, ce l'abbiamo fatta un'altra volta. La presa della città di Palmira e di tutti i posti di confine tra Siria e Iraq da parte delle milizie dell'Isis (che ormai controlla metà dell Siria e un terzo dell'Iraq) segna, con ogni probabilità, la svolta decisiva nella guerra che infuria in Siria da quattro lunghissimi anni. Tutti gli esperti ormai prevedono che il regime di Bashar al Assad abbia i mesi contati. E' solo questione di tempo prima che l'intero Paese cada sotto il controllo delle diverse formazioni dell'estremismo islamico. Per non dire dell'Iraq, dove solo la resistenza dei curdi e delle milizie sciite impedisce all'Isis di dilagare, dopo la presa di Ramadi; della Libia, per due terzi dominata dai jihadisti; e dell'Arabia Saudita, dove l'Isis sta cominciando a mettere a segno i primi attentati.
Sembrava impossibile fare più danni, in Medio Oriente, dell'accoppiata Blair-Bush. Invece, come si diceva, ce l'abbiamo fatta. Il nostro ministro degli Esteri, Gentiloni, ha chiesto (in termini da diplomatico ma chiaramente) una revisione della strategia anti-Isis. Bisognerebbe chiedersi, però, se tale strategia esista. E in caso di risposta affermativa, se abbia mai avuto davvero come obiettivo l'eliminazione dell'Isis.
E' chiaro da tempo, infatti, che l'Isis va prima di tutto sconfitto in Siria, dov'è nato e dove ha le basi più forti. Ma l'alleanza tra Usa e Arabia Saudita (gli altri Paesi sono quasi solo contorno), varando la strategia dei bombardamenti senza impegno diretto sul campo, ha invece cercato di frenare l'Isis senza eliminarlo del tutto, nel chiaro proposito di far cadere Assad, o almeno di renderlo impotente a tutto tranne che a combattere i jihadisti.
Basta fare il confronto con quanto avviene per lo Yemen: quando i ribelli sciiti Houthi, alleati all'Iran, ha minacciato di prendersi il Paese intero, l'Arabia Saudita ha formato i poche ore una coalizione di dieci nazioni che ha riversato contro gli Houthi 100 mila soldati e oltre 100 aerei da combattimenti, con bombardamenti massicci su città e paesi dove gli Houthi erano attestati. Nulla di simile contro l'Isis, come sappiamo. E su questa decisione strategica ha poco peso il fatto che Assad sia un dittatore con le mani che grondano sangue, visto che l'Isis è di certo ancor peggio.
E non solo: sono palesemente ancora aperti tutti i canali di rifornimento che aiutano l'Isis a espandersi. Dal Golfo Persico arrivano soldi e armi. L'Arabia Saudita ha ufficialmente vietato le donazioni a favore dei jihadisti, ma il confinante Kuwait no, e il gioco è fato. Non bisogna nemmeno scordare che Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti sono tra i maggiori acquirenti di armi del mondo, pur senza avere (anche in questo caso, ufficialmente) alcuna guerra in corso. E la Turchia tiene aperto il confine con quella parte di Siria controllata dall'Isis, e di lì passa di tutto, compresi i volontari che dall'Europa continuano ad arruolarsi tra i jihadisti. Stiamo parlando, come si vede, di Paesi alleati degli Usa, mica dell'Iran o della Corea del Nord.
A questo punto, restano in piedi solo due ipotesi. O a Washington e Riyad governano e prendono decisioni sul Medio Oriente degli emeriti incapaci, e pare un po' improbabile. Oppure in quelle capitali c'è che conta di far cadere lo sciita Assad per installare al suo posto un regime sunnita compiacente. Pensando forse che l'Isis, una volta impadronitosi di un Paese, si plachi e diventa più sensibile alle ragioni saudite e americane, o immaginando di far fuori l'Isis ma solo dopo che questi avrà fatto fuori Assad.