Il loro numero preciso non si conosce.
Qualche decina, forse. Di sicuro, il loro,
è un “no” che pagano a caro prezzo:
finiscono in un carcere militare.
Sono i giovani israeliani chiamati
(o richiamati) sotto le armi che rifiutano
di arruolarsi. Significativo il nome di uno
dei movimenti che li coordina
e li difende: Yesh Gvul, che in ebraico
significa “C’è un limite”. Tra gli obiettori
di coscienza c’è Uriel Shmuel Ferera, un
diciannovenne ebreo ortodosso. Sua
madre, fotografa, è un’argentina
originaria di Buenos Aires e anche
lei risulta molto impegnata nella causa
della pace. Uriel vive a Be’er Sheva.
In messaggi su YouTube e su Facebook
spiega le ragioni per cui rifiuta
l’arruolamento: «Non voglio prendere
parte ad attività antidemocratiche
come l’occupazione militare delle terre
palestinesi e il trattamento diseguale
tra noi e loro». Il 21 luglio Uriel è stato
condannato ad altri 20 giorni di prigione;
è il quinto periodo di detenzione.
Scarcerato, viene richiamato alla base
militare; al suo ennesimo “no”
a indossare l’uniforme e a imbracciare
le armi segue un processo.
Uriel Shmuel Ferera
Lui tiene
il punto: «Per me, credente,
è assolutamente in contrasto con
la visione di Dio che ci crea tutti a sua
immagine e somiglianza; noi non
abbiamo il diritto di fare del male
ad alcun essere umano. L'esercito sta
attaccando obiettivi dove vivono uomini
innocenti, donne e bambini». Un altro
obiettore di coscienza è Udi Segal,
anch’egli diciannovenne, giovane ebreo
del Kibbutz Tuval, che ha compiuto
questa scelta con «l’obiettivo» di
contribuirea «metter fine all’occupazione».
Come lui, altri ripetono: «Guerra di Gaza,
non nel mio nome». Il 23 luglio, il sito
del Washington Post ha pubblicato una
polemica presa di posizione firmata
da oltre 50 israeliani che dichiarano
di rifiutare di far parte della riserva.