Chiunque ma non Bibi. La nascita del nuovo Governo di Israele si spiega così. Per mettere fuori causa Benjamin “Bibi” Netanyahu, l’uomo che da una dozzina d’anni domina la politica nazionale e che, nella permanenza al potere ha già superato il padre della patria Ben Gurion, è nata una coalizione a dir poco stravagante: otto partiti, di centro (Yehs Atid e Blu e Bianco), di destra (Casa Nostra, Yamina e Nuova Speranza), di sinistra (Laburisti e Meretz) e degli arabi israeliani (Lista Araba Unita) che dovrebbero essere guidati, fino al 2023, da Naftali Bennett (Yamina) e poi da Yair Lapid (Yesh Atid), vero promotore di questa alleanza. Un cambio in corsa che, viste le personalità in campo, già si annuncia come un triplo salto mortale senza rete.
Dovrebbero, dicevamo. Manca infatti il voto di fiducia in Parlamento. La Knesset ha 120 seggi e la “coalizione anti-Bibi” dispone di 61 voti. Considerate le capacità manovriere di Netanyahu, il fatto che il suo partito, il Likud, è comunque quello che ha raccolto più voti e che polemiche e discussioni sono già esplose nel raggruppamento rivale, una sorpresa in Parlamento non è da escludere. Gioca a favore della coalizione, invece, la stanchezza collettiva: quattro elezioni politiche in meno di due anni, contrappuntate di guerre e disordini vari, possono essere troppo anche per un Paese resistente come Israele.
Com’è facile intuire, il fatto davvero nuovo è l’ingresso al Governo (anche se, negli incarichi, limitato a un vice-ministro) del partito islamista guidato da Mansour Abbas e votato dai cosiddetti “palestinesi del 1948”, ovvero quelli residenti in Israele. Nato nel 1996 dalla fusione di diversi partitini arabi (mossa necessaria per superare la soglia di sbarramento del 3,5% per l’ingresso in Parlamento), la Lista Araba Unita dispone di 4 seggi. Pochi ma non pochissimi, se pensiamo che Yamina, il partito dell’ipotetico premier Bennett, ne ha 6. Se la coalizione passerà il voto di fiducia, per la prima volta gli arabi potranno dire di aver influito in modo vistoso sul corso della politica israeliana. Un passo importante, da cui però non bisogna trarre conseguenze affrettate. L’agenda dei palestinesi israeliani è diversa da quella dei palestinesi di Cisgiordania o, ancor più di Gaza. Per loro si tratta “solo” di rimontare posizioni e conquistare piena dignità in una società, quella appunto di Israele, che è comunque moderna e funzionante. Non a caso Mansour, facendo pesare i suoi voti, decisivi per la nascita del nuovo Governo, ha adottato la tattica dei partiti religiosi israeliani, chiedendo concessioni concrete per i suoi elettori.
Non va però trascurata un’altra elezione, che le ripetute crisi politiche hanno fatto casualmente coincidere con la diatriba politica intorno a Netanyahu. La Knesset, con un voto a larghissima maggioranza (87 voti su 120) ha eletto il sessantunenne Isaac Herzog quale undicesimo presidente dello Stato di Israele. Herzog, che succede a Reuven Rivlin, è un puro prodotto della “classe nobile” del sionismo. Suo nonno, Ytzhak HaLevi Herzog, era stato il primo rabbino capo ashkenazita di Israele. Suo padre, Chaim Herzog, è stato il sesto presidente dello Stato ebraico. Suo zio, Abba Eban, fu il ministro degli Esteri di Golda Meir. Lui è stato ufficiale dei servizi segreti, avvocato di successo e socio di uno dei più prestigiosi studi legali del Paese, più volte ministro (Welfare, Diaspora, Edilizia Pubblica, turismo) nonché presidente dell’Agenzia Ebraica.
Bougie (in Israele un soprannome non si nega a nessuno) ha però anche un’altra caratteristica: è stato tra i più tenaci, anche se sfortunati, oppositori di Netanyahu. La sua elezione, per di più con un voto così trasversale, fa pensare che qualcosa, in Israele, stia davvero cambiando. Ce lo dirà, tra pochi giorni, la Knesset, chiamata a dare o negare la fiducia alla coalizione anti-Bibi.