Il professore Marco Lombardi
Lo abbiamo visto sabato mattina con le decine di video che rimbalzavano sulle piattaforme social per raccontare in tempo reale, da parte della propaganda di Hamas, l’attacco ad Israele con immagini e video senza censura, né alcun tipo di filtro, spesso corredate da musiche e scritte che inneggiano alla “rivoluzione”. Dal lancio dei primi razzi all'azione sul campo: filmati postati sui canali di riferimento della jihad, su Telegram e X, che contano migliaia di iscritti, come quelli dei soldati israeliani attaccati nei tank che venivano estratti privi di vita dai mezzi.
Marco Lombardi è professore di Sociologia, Comunicazione e Crisis Management all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Coordina ITSTIME (Italian Team for Security Terroristic Issues & Managing Emergencies), centro di ricerca del Dipartimento di Sociologia che da quindici anni studia il fenomeno del terrorismo monitorando la comunicazione e producendo analisi.
Professore Lombardi, dal punto di vista mediatico e della comunicazione che guerra è quella scoppiata in Medio Oriente?
«Una guerra come tutte le altre, nel senso che tutti i conflitti di questi ultimi dieci anni sono mediatizzati. Ricordo, a questo proposito, una lettera del 2005 del leader di al-Qaida, Ayman al Zawahiri, che scriveva che “metà della nostra battaglia sarà condotta sui media” con l’evidente consapevolezza che la nuova frontiera della guerra era necessariamente il fronte mediatico e non quello militare. È successo in Siria, poi in Ucraina, ora in Israele. Oggi il target della guerra è l'opinione pubblica e quindi si fa attraverso i media. La moltiplicazione dei flussi di informazione che arrivano da tutte le parti, soprattutto sui social, rende estremamente variegata l'informazione che uno non capisce più che cosa è vero e cosa no. Se in passato avevi tre informazioni di tre tipi diversi, oggi nei hai cinquecento con altrettante posizioni. A quel punto che fare? Ridurre la complessità è difficile, se non impossibile, e quindi ti affidi alla tifoseria che è una scorciatoia che funziona sempre. Oggi in guerra vince chi riesce a costruirsi dei tifosi. La faccenda dei presunti sgozzamenti dei bambini israeliani da parte di Hamas è una conferma emblematica».
A riportare la notizia è stata l’emittente israeliana i24News parlando di una quarantina di neonati e bambini trovati morti nel kibbutz di Kfar Aza, rastrellato dai militanti di Hamas il 7 ottobre scorso, alcuni dei quali “con la testa tagliata”. Perché è significativa?
«La testata citava come fonte alcuni soldati israeliani che avevano visto queste scene raccapriccianti. Hamas ovviamente ha smentito, e questo è ovvio, ma è sorprendente quello che ha dichiarato la portavoce dell’IDF (Israeli Defence Forces): “Abbiamo visto le notizie, ma non abbiamo dettagli o conferme in proposito”. Mercoledì il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha dichiarato che “non avrei mai veramente pensato di vedere, e di avere conferma, di immagini di terroristi che decapitavano bambini”. La Casa Bianca ha poi chiarito l’affermazione, spiegando – attraverso due alti funzionari dell’amministrazione – che il presidente americano si riferiva a notizie provenienti da Israele su bambini decapitati, ma che non avrebbe visto direttamente le foto. Eppure, la notizia ha fatto il giro dei media e dei social, ha avuto centinaia di migliaia di visualizzazioni». Ha sbagliato Biden? «Se sei il presidente degli Stati Uniti, hai bisogno di uno staff attentissimo che verifichi queste cose, in questo caso, se le foto effettivamente c’erano oppure no. Se neanche alla Casa Bianca lo fanno, vuol dire che anche l’America ha ormai deciso di scegliere la via del tifo e non quella dell'analisi. Questo è un esempio clamoroso. Accade adesso in Medio Oriente ma è cosi ovunque. La guerra cognitiva è una guerra dell’informazione che ha come principale obiettivo quello di portare dalla propria parte l'opinione pubblica, perché poi è quella che pesa politicamente e “preme” sui governi perché prendano certe decisioni in termini di armi da fornire, soldi da dare, cooperazione da smantellare».
Siamo passati da analisti senza competenze a tifosi appassionati.
«Sì. Anche perché finora, Ucraina a parte, le guerre ci hanno sfiorato ma non si sono combattute in casa nostra. Dopo gli attentati del 2015 al Bataclan di Parigi, il presidente francese Hollande parlò a caldo di guerra contro i terroristi. I suoi consiglieri gli dissero di non utilizzare quella parola. Questo ha rafforzato la percezione nell’opinione pubblica occidentale, europei e americani in primis, che la guerra è semplicemente un campo di gioco distante da noi, dove due squadre si scontrano e per le quali noi siamo chiamate a fare il tifo».
Un'altra vicenda su cui la propaganda si scatena è la gestione degli ostaggi.
«Infatti. Più che sul presunto sgozzamento dei bambini israeliani da parte di Hamas, è proprio la vicenda degli ostaggi che porta alla similitudine con l’Isis la quale, se ricordiamo, faceva un’informazione ampia, dettagliata e spettacolare facendo vedere i dettagli dell’esecuzione, udire i lamenti dei “condannati”, indulgere su particolari raccapriccianti. Ma l’attenzione alla comunicazione mediatica oggi non c’è solo durante il conflitto ma anche prima e dopo».
In che senso?
«Oltre all’asset mediatico, c’è quello degli attacchi cyber di cui, ad esempio, sono rimaste vittima di recente le forze armate israeliane. Oggi la guerra non è fatta solo di droni, carri armati, razzi e missili, ma di squadre di tecnici preparati che lavorano sulla comunicazione e sugli attacchi informatici. L’esercito di Israele, ma non solo, “arruola” giovani che sui social parlino ai loro coetanei non arruolati. Poi, passando ad Hamas, se quello che ha fatto e la propaganda a tamburo battente che sta scatenando porterà a una jihād globale è tutto da vedere e io personalmente sono molto scettico».
Cosa farà adesso Hamas?
«Finora ha eseguito alla lettera quello che il capo delle guardie rivoluzionarie iraniane aveva detto nell’agosto del 2022 quando in una lettera chiedeva ad Hamas di andare sul territorio e attaccare. Lo ha fatto sabato scorso provocando una carneficina spaventosa e per prendersi alcuni ostaggi da utilizzare, purtroppo, nella guerra di nervi e mediatica dei prossimi giorni. Minacciando, come sta facendo, di ucciderli uno ad uno se verrà attaccata via terra dall’esercito israeliano nella Striscia. Basta questo, ovviamente, per definire Hamas un’organizzazione terroristica che usa il terrore come arma per combattere».
Che evoluzione del conflitto prevede?
«Parlando con diversi israeliani, ho l’impressione – ma la mia è solo un’impressione – che gli ostaggi siano considerati come “spendibili” se l’obiettivo supremo è annientare e distruggere Hamas, costi quel che costi, come ha detto Netanyahu. Credo che ci sarà l’intervento israeliano di terra a Gaza ci sarà ma auspico che prima ci sia un intervento dell’autorità internazionale che riesca a convincere l'Egitto ad aprire l'unico confine al valico di Rafah per spingere più popolazione possibile fuori dalla Striscia. Dal punto di vista strategico, l’attacco dovrà essere veloce e andare a colpire nei punti giusti per poter salvare più ostaggi israeliani possibile».