Jasmine Trinca e Sergio Castellitto a Cannes.
Dagli stenti della borgata romana ai lussi della Croisette. È l’immaginifico viaggio compiuto da Fortunata, una madre di oggi, una giovane donna forte e coraggiosa, alle prese con un matrimonio fallito e con le indicibili difficoltà per coronare un piccolo sogno: aprire un suo negozio così da emanciparsi economicamente e realizzare le sue aspirazioni. Ma come può esser finita in Costa Azzurra, in mezzo al jet-set e a boutique sfavillanti delle griffe più famose? A portarcela è stato Sergio Castellitto in veste di regista perché lei, cui presta volto e anima Jasmine Trinca, è la protagonista del suo nuovo film invitato ufficialmente al 70° Festival di Cannes: Fortunata, in concorso nella sezione ufficiale parallela Un Certain Regard.
«Fortunata è un aggettivo qualificativo femminile singolare. Ma è anche il nome di una donna. E soprattutto un destino», stuzzica Castellitto puntando al cuore dello spettatore. «Non è detto poi che quel destino uno se lo meriti. In questa storia, ci sono uomini che non sono affatto d’accordo sulla felicità di Fortunata. Bisognerà stare a vedere».
- Questo è il tuo sesto film da regista e ancora una volta punti l’obiettivo su una figura femminile. Come mai: credi che oggi il cinema italiano ne parli poco e male?
«È un’attenzione che nasce grazie alla scrittura di mia moglie, Margaret Mazzantini. Anche stavolta infatti, come nel caso di Non ti muovere, Venuto al mondo e Nessuno si salva da solo, il film nasce da un suo libro. Il fatto è che nel nostro cinema la donna viene di norma raccontata dagli uomini, quindi filtrata attraverso le loro idee o le loro frustrazioni. Io ho la fortuna di poter attingere alla scrittura di Margaret, che non è femminile nell’accezione commerciale del termine ma che definirei verticale. Nel senso che sa approfondire la natura delle donne, la loro evoluzione, la loro capacità di essere al centro della vita in maniera allo stesso tempo più cosciente e più sentimentale. Le donne sanno bene, sempre, di che cosa parlano. Io personalmente ho imparato più dalle donne che dagli uomini: dalle mie sorelle, da mia madre, da Margaret».
- Che cosa ti ha sedotto di Fortunata?
«La sua evoluzione. All’inizio, Fortunata crede di essere emancipata ma non è neanche evoluta. È una ragazzaccia a cui la durezza della vita ha trasmesso la convinzione che l’unica possibilità di affrancarsi, dal dominio di un ex violento e dalla violenza stessa della società, sia il denaro. Per questo fa di tutto per aprire il suo negozio da parrucchiera. Invece, il rimedio all’infelicità sono i sentimenti».
- Come arriverà a rendersene conto?
«Con fatica. Perché Fortunata è mamma di una bambina che vive con disagio la traumatica rottura dei genitori. Le sue difficoltà la costringeranno a ricorrere a uno psicoterapeuta infantile. Così, nella corsa verso l’emancipazione economica inciamperà nella variante capace di spiazzare gli esseri umani: l’amore. Che poi è la sola forza capace di farci guardare dentro, di affrancarci dalle nostre convinzioni e presunzioni. L’amore però, nella realtà, non è mai rosa… Sono davvero contento di come è venuto il film perché è pieno di vita, di febbre».
- Quel clima che lo spettatore respirava in Non ti muovere...
«Assolutamente sì. Personaggi costretti a fare i conti con l’amore. Non per nulla, come in quel film, anche in questo il motivo conduttore è una canzone di Vasco Rossi: Vivere».
- Ci vuol coraggio per fare oggi in Italia un film drammatico?
«In un clima produttivo concentrato tutto sulla comicità (perché attenzione: la commedia è tutt’altra cosa) noi diciamo allo spettatore: caro mio, in questa storia c’è poco da ridere. La cosa ti interessa? Quando Thierry Frémaux, selezionatore del festival, ha presentato il nostro film citando Mamma Roma di Pasolini, ho capito che le nostre fatiche non erano state vane».
- Caspita, che paragone!
«Me ne rendo conto. Ma come quello, anche il nostro è un film sulla periferia. Filmata con identico rispetto, perfino pietà. Certo, si tratta della periferia di oggi. Vedere Jasmine Trinca, nei panni della protagonista, camminare sugli stessi vialoni calcati da Anna Magnani, fa un certo effetto. Ma noi attori, artisti siamo spesso troppo lontani dal tram: dal guardare davvero negli occhi quelle persone che, sotto una pensilina, sembrano ferme ad aspettare ben altro dalla vita».
- In questa storia trova spazio l’orrore narrato dalle cronache di oggi? La violenza maschilista imperversa…
«C’è anche questo. Per comprendere la nostra sconfitta di uomini e di cittadini, basti pensare a un paradosso. Siamo stati costretti a coniare una nuova parola: femminicidio. Fortunata non è però un film sociologico, piuttosto romanzo popolare».
- I maligni insinuano: certo che fa film basandosi sui libri della moglie. Così resta tutto in famiglia: costi e diritti…
«La verità? È una meravigliosa complicazione. È una fortuna, per un regista, avere a che fare con uno scrittore che sa narrare storie, costruire la psiche dei personaggi. Ma devo essere sincero: Margaret è a pieno titolo coautore del film. Sul set siamo come i Taviani o i fratelli Dardenne. Questione di intelligenza e di fortuna: non capita a tutti d’incontrare una persona, innamorarsi e, dopo trent’anni, amarla ancora».
- È difficile resistere tanto vivendo la quotidianità. Ancor più quando si lavora insieme. Qual è il vostro segreto?
«Mica siamo la famiglia del Mulino Bianco! Però tra noi e i nostri quattro figli resta sempre viva l’idea di un progetto. Al di là del fatto che ogni tanto si litighi, si va sulla stessa strada».
- Pietro, il maggiore, aveva recitato in Venuto al mondo accanto a Penelope Cruz. Che poi è amica di famiglia…
«Sì, lo è dai tempi delle riprese di Non ti muovere. Il set è stata una bella esperienza per Pietro. Ma ora, a 25 anni, dopo la laurea in filosofia, ha scelto la scrittura. Ha fatto una scuola di cinema a Londra. Maria, la seconda, sta studiando anche lei a Londra. Invece Anna, che ha 16 anni e Cesare, che ne ha 10, stanno con noi. Ai figli abbiamo fatto un regalo: la libertà».
- Sergio, che tipo di papà sei?
«Sono stato tanti padri diversi. Una cosa è esserlo a trent’anni, altro dopo. La maturità comporta altri tipi di errori».
- Sei apprensivo quando senti le notizie di attentati?
«Come tutti. Dopo Londra, ho subito telefonato a Maria».
- Torniamo a Fortunata. Il film si regge sull’intensa interpretazione di Jasmine Trinca…
«È la seconda volta che lavoriamo assieme. Io e Margaret abbiamo pensato subito a lei. Un’attrice straordinaria, che si cala nel personaggio con empatia. È cresciuta nei film, belli e non facili, di Nanni Moretti, di Michele Placido, di Giorgio Diritti... La volontaria laica di Un giorno devi andare ‘è’ lei».
- Una Margherita Buy del terzo millennio?
«Stesse ansie, stessa sensibilità. Ma in lei c’è una carica umana, una forza espressiva che fa pensare ad Anna Magnani».