«Era il 29 dicembre 2006. Mentre raccoglievo la legna per il fuoco vicino al lago, sono stata assalita da tre uomini. Uno di loro mi ha violentato. Le mie grida hanno richiamato alcuni pescatori che hanno messo in fuga gli aggressori. A casa ho pianto per ore senza riuscire a smettere ma non ho detto niente ai miei genitori».
Jeanine, 32 anni, i capelli cortissimi che incorniciano un viso tondo da bambina, racconta la sua storia, drammaticamente simile a quella di tante altre donne in Burundi. Nel piccolo Paese color verde smeraldo, situato nella regione dei Grandi Laghi, nel cuore dell’Africa, lo stupro è, infatti, un fenomeno molto diffuso. Non ci sono dati ufficiali, ma si stima che una donna su dieci, per lo più minorenne, è colpita dal problema.
E il copione è lo stesso per tutte: la messa al bando dei genitori e della comunità, l’abbandono degli studi e, quasi sempre, una maternità. E una vita, da affrontare da sole, senza alcun sostegno. Ma nella storia di Jeanine è prevista una variazione nella consueta trama: un evento che cambierà non solo la sua esistenza ma anche quella di altre donne: l’incontro con Seruka, un centro specializzato che si occupa di vittime di violenza sessuale.
Il centro Seruka è il partner locale dell’Ong torinese Comitato collaborazione medica (Ccm), presente in Burundi dal 1992, che, nel 2011, ha avviato un progetto pilota in tre province del Paese (Bujumbura Mairie, Cibitoke e Muramvya), finanziato dall’Unione Europea. Gli obiettivi del progetto – che coinvolge circa 1 milione e 200 mila persone su un totale di 10 milioni di abitanti – sono: rafforzare i servizi sanitari, sociali e giuridici offerti dal Centro Seruka; realizzare campagne di sensibilizzazione e informazione; garantire l’accompagnamento tecnico e finanziario agli ospedali distrettuali e ai centri di salute e socio-assistenziali delle tre province.
Jeanine, una delle donne assistite dal Centro Seruka, partner del Ccm di Torino. In copertina: un'altra immagine di Jeanine.
Jeanine è stata curata nel presidio medico di Seruka e seguita, anche dal punto di vista psicologico, fino al momento del parto, quando ha dato alla luce due gemelli. Nel 2008, la ragazza è poi entrata a far parte dell’associazione “Lottiamo contro le violenze sulle donne”, creata dal Centro Seruka per rendere le vittime protagoniste del lavoro di cambiamento della società e di sostegno ad altre vittime.
«Ho seguito un corso di formazione al Ccm che mi ha fornito i mezzi per lavorare. Partecipo alle attività di sensibilizzazione nella comunità e mi batto contro la stigmatizzazione delle vittime». Già, perché lo stigma sociale è l’ulteriore, brutale, violenza che la donna è costretta a subire, uno dei principali motivi che le dissuade dal denunciare l’accaduto.
In una recente ricerca sul campo realizzata per l’Ong torinese dalla psicoterapeuta Iside Baldini, tutte le minori violentate e rimaste incinte affermano di aver mantenuto il segreto per timore di essere cacciate dalla loro famiglia e di aver confessato solo quando la gravidanza non poteva più essere nascosta. Ma ci sono altri motivi che impediscono alle ragazze di presentare una denuncia: la paura di rappresaglie, i costi e la lentezza della giustizia, la corruzione dei poliziotti e dei magistrati, l’impunità degli aggressori (per lo più membri della famiglia e vicini, ma anche professori, poliziotti e funzionari pubblici).
Nell’indagine risulta che il 51% dei casi di violenza incontrati non è stato denunciato, che più del 40% dei criminali arrestati viene liberato, o corrompendo o con qualche escamotage, e che su 51 casi esaminati solamente 2 autori del crimine sono andati in prigione. A pagare sono sempre e solo loro, le donne. Le persone intervistate, studenti, professori e genitori, affermano: «La donna che subisce violenza non è più considerata una persona. Diventa impura». Così è facile comprendere come il suicidio e la perdita della ragione siano fenomeni molto diffusi.
Grazie al lavoro di Seruka, che prevede il sostegno anche della famiglia della vittima, il padre di Jeanine ha capito che lei non aveva alcuna responsabilità e ha smesso di maltrattarla. Per crescere i suoi bambini, che oggi hanno 8 anni, la ragazza fa l’aiuto muratore e conta sul raccolto dei campi che coltiva insieme agli altri membri dell’associazione. Nel film della sua vita c’è stato il colpo di scena e lei ora lavora perché anche altre vite possano avere un finale diverso.
Link:
- www.centreseruka.org
- www.ccm-italia.org