Leggere i saggi di Jeremy Rifkin equivale a compiere un balzo a piedi uniti nel futuro. Come la civetta di Minerva, di hegeliana memoria, l’economista americano si affaccia sul mondo al crepuscolo, cercando di cogliere i fenomeni, le tendenze, le dinamiche anche culturali e sociali celate sotto la superficie della storia. E fin dai tempi delle “profezie” sulla Fine del lavoro (1995), l’Economia all’idrogeno (2002) e La civiltà dell’empatia (2010) ha mostrato una capacità non comune di scorgere, leggendo i segni dei tempi, i germi di un futuro ancora in via di formazione.
Il suo ultimo lavoro, La società a costo marginale zero (Mondadori), azzarda una tesi tanto impegnativa quanto ricca di suggestioni: il modello economico - ma anche sociale e culturale - che ha dominato negli ultimi secoli è destinato a tramontare o, almeno, a essere ridimensionato, in virtù dell’avvento di un nuovo paradigma. In altri termini, il capitalismo cederà via via posizioni, a favore di quelli che Rifkin definisce Commons collaborativi, ovvero comunità caratterizzate da una forte attitudine alla condivisione di beni e servizi. È evidente che, se tale tesi risulterà plausibile, a essere in gioco non è soltanto l’avvicendarsi di modelli economici - fatto che costituisce comunque di per sé una rivoluzione - ma l’emergere di un nuovo modello sociale e culturale, con il suo apparato di valori.
Considerato che l’esito finale del suo ragionamento è l’affermarsi della cooperazione, al posto della competizione, della condivisione, anziché del monopolio, del diritto all’accesso, rispetto a quello proprietà, dell’armonia con l’ambiente, in luogo del suo illimitato sfruttamento, c’è da stupirsi se l’economista manifesta il desiderio che papa Francesco prenda il mano il suo libro?
Professor Rifkin, prima di analizzare le implicazioni sociali, culturali e filosofiche della società a costo marginale zero, conviene tornare sulla tesi centrale del suo saggio: l’eclissi del capitalismo. Lei indica anche le date entro le quali tale paradigma economico e sociale arriverà al tramonto. Si tratta evidentemente di una tesi forte: ogni giorno assistiamo al dispiegarsi del potere delle multinazionali, che di quel paradigma sono una delle massime espressioni. Eppure lei individua una contraddizione conficcata proprio nel cuore del capitalismo…
«Non parlo di un collasso del capitalismo, quanto di una sua radicale trasformazione. Nel futuro si svilupperà un nuovo sistema economico, basato sulla condivisione, sui Commons collaborativi, e si passerà da un mercato di scambio a un mercato di condivisione. Nei secoli scorsi abbiamo assistito alla rivoluzione socialista e poi a quella capitalista: ora è il momento dell’avvento dell’economia collaborativa, un evento di portata storica, che non ha valore solo economico, ma anche sociale e culturale. I due sistemi - quello capitalista e quello collaborativo - vivranno l’uno accanto all’altro, a volte come rivali, a volte beneficiando l’uno dell’altro; ma ritengo che entro il 2050 avremo una situazione ibrida. L’evento fondamentale che sta già trasformando l'economia è quello del costo marginale zero, il costo di ogni singola unità di prodotto, una volta abbattuti i costi fissi».
In che modo sarebbe proprio questo pilastro dell’economia capitalista a favorirne la trasformazione?
«È il suo paradosso, la sua contraddizione strutturale. La condizione che ne ha decretato il successo e ora, per una sorta di nemesi storica o pena del contrappasso, rappresenta se non la sua fine, il suo ridimensionamento. Quello che si insegna in ogni corso di economia classica è che l’imprenditore cerca di aumentare al massimo la produttività, riducendo al minimo i costi. In questo processo, un ruolo chiave è svolto dalla tecnologia. Chi è più bravo, chi più si avvicina al costo marginale zero, conquista nuovi clienti e aumenta i propri profitti. Non si era però previsto che per molti beni e servizi si arrivasse a un costo marginale davvero prossimo allo zero, tale da rendere quasi nulla la redditività».
Possiamo fare qualche esempio per spiegare questa corsa verso il costo marginale zero di un prodotto?
«Pensiamo allo sconvolgimento che si è verificato negli ultimi quindici anni nel settore dell’informazione in senso lato. Milioni di giovani, attraverso l’uso di semplici software, condividono musica, creata da altri o da loro stessi; la medesima cosa è accaduta con i video e con i giornali e i libri: chiunque può produrre in casa, diciamo, video e informazione e scambiarli istantaneamente con il mondo intero. L’impatto per l’industria discografica, cinematografica ed editoriale è stato tremendo. E non c’è ambito economico che sia al riparo dalla rivoluzione. Negli ultimi due anni sei milioni di studenti hanno seguito corsi universitari on line, spesso tenuti dai migliori docenti a livello internazionale, ricevendo crediti universitari. Il 40 per cento della popolazione mondiale è collegata ad Internet ed è diventata prosumer, vale a dire produttrice e consumatrice al tempo stesso. Gli effetti sono impressionanti: per dare un’idea dei risvolti culturali del fenomeno, si consideri che il giovane americano oggi trascorre davanti alla televisione solo 20 minuti al giorno, un tempo molto inferiore a quanto succedeva fino a poco tempo fa».
La rivoluzione dal mondo dei bit a quello degli atomi
Qual è stata la reazione dell’industria tradizionale?
«Ha pensato che esistesse una barriera, grazie alla quale il processo del
costo marginale zero si sarebbe arrestato entro i confini del mondo
“virtuale”, permettendo al mondo materiale di sopravvivere perpetuando
le sue logiche. E invece anche questa barriera è stata abbattuta e il
passaggio dalla dimensione dei Bit a quella fisica degli atomi è stato
reso possibile da quella che io chiamo la Super Internet delle cose.
Dobbiamo situare il nostro ragionamento dentro il contesto storico. Si
sono verificati molti mutamenti dei paradigmi economici e culturali nel
corso della storia. Ciascuno di essi si fondava sull’avvento di una
nuova piattaforma, costituita da tre fattori - la comunicazione,
l’energia e la logistica - che poneva le condizioni per un cambiamento.
Ora, concentrando la nostra attenzione sugli ultimi due secoli, abbiamo
visto l’affermarsi della Prima rivoluzione industriale nel XIX secolo,
determinata dall’avvento della stampa nel settore della comunicazione,
del carbone in quello dell’energia e della rete ferroviaria in quella
della logistica. Nel XX secolo si è imposta la piattaforma formata da radio e Tv,
sfruttamento del petrolio e rete stradale, portando alla Seconda
rivoluzione industriale, ora è al tramonto. Significa che la
piattaforma comunicazione-energia-logistica su cui si fonda è matura:
produrre energia dal petrolio è troppo costoso ormai, senza contare che
sta causando un cambiamento climatico che minaccia l’equilibrio del
nostro pianeta. Oggi siamo nel mezzo della Terza rivoluzione
industriale, il cui elemento di base è la convergenza di comunicazione,
energia e logistica nell’Internet delle cose».
Ci spieghi quali sono le caratteristiche di questa Terza rivoluzione
industriale e come si attui grazie all’Internet delle cose.
«È in costruzione una gigantesca rete neurale che abbraccerà il pianeta,
consentendoci di avere il controllo su ciò che accade in ogni suo
angolo. Lasciamo per un momento da parte il problema, non certo
trascurabile, della privacy e il fatto che tutto ciò si alimenta di
energie rinnovabili, che affronteremo dopo. Sono giù diffusi 13 miliardi
di sensori che collegano un’infinità di cose alle persone, entro il
2030 si prevede che arriveranno a essere 100 trilioni. Vengono collocati
nel terreno per valutare le condizioni del raccolto, nelle strade per
monitorare il traffico, nei magazzini per controllare le scorte e la
distribuzione delle merci, nelle fabbriche per conoscere immediatamente
il ciclo produttivo, nei negozi per carpire le modalità di acquisto dei
clienti, nelle smart houses per risparmiare energia… Ebbene, grazie a
questi sensori miliardi di persone, avendo in mano anche soltanto uno
smart phone collegato alla Rete, saranno in grado di avere accesso a
questi dati e condividerli con gli altri per organizzare la loro vita e
le loro attività. Teniamo a mente che ciò sta avvenendo non solo nel
mondo virtuale dell’informatica, ma anche in quello reale, in seguito
alla diffusione delle stampanti tridimensionali (3D). Il prosumer è
insomma nella condizione di produrre e usufruire di una
quantità sempre maggiore di beni e servizi, semplicemente grazie a un
computer o una smart phone e una connessione. Proprio stamattina il
Financial Times dà conto della rivolta dei tassisti in Germania contro
Uber, una sistema che consente a chiunque di collegarsi a un
sito, verificare se qualcuno sta guidando nella direzione che ci
interessa, godere del passaggio e saldare sempre in Rete. L’idea di
fondo è semplicissima: un sito Internet che, grazie alle reti Gps, mappa
in tempo reale la mobilità. Se per il 90 per cento del nostro tempo non
abbiamo bisogno di un’auto - come accade a larga parte della
popolazione - un servizio del genere diventa formidabile. E l’offerta è
in fase di ulteriore avanzamento: alcune società forniscono il sevizio
solo con auto elettriche, nel giro di 10 anni ci saranno auto che non
avranno più bisogno del conducente, a Chicago è stata presentata un’auto
stampata integralmente (eccetto il telaio) con stampante 3D…».
Lei torna frequentemente sulla produzione e l’impiego
delle automobili, come caso esemplare della rivoluzione in corso…
«È stato calcolato che un’auto in condivisione ne può sostituire 15 fra
quelle attualmente in circolazione. A parlare della rivoluzione che
investe il settore è stato lo stesso Cio della General Motors che ha
commissionato una ricerca, dalla quale è emerso che la diffusione di
piattaforme analoghe a quella di Uber potrebbe eliminare l’80 per cento
delle auto che ora sono sulle strade, garantendo più sicurezza e minor
impatto ambientale. E a ciò si deve aggiungere il fatto che le auto che
“sopravviveranno” saranno in gran parte elettriche e con bassi consumi.
Le conseguenze saranno incommensurabili. Sul piano culturale, si passerà
dal concetto di proprietà a quello di accesso. Sul piano ambientale, la
quantità enorme di materie prime ed energia che il settore
automobilistico divora, inquinando l’ambiente, verrà cancellata
dall’utilizzo di energie rinnovabili e dalla stampa in 3D».
Germania, paradiso del rinnovabile
L’impressione è che i Governi non sappiano gestire queste
trasformazioni, ammesso che ne siano consapevoli…
«Sono consulente di Angela Merkel da molti anni, ancora prima che
diventasse cancelleria. Ho lavorato con il Governo tedesco per la messa a
punto di una piattaforma che permettesse di utilizzare in maniera
efficiente le energie rinnovabili. Il risultato è che, oggi, milioni di
famiglie tedesche per quanto riguarda la produzione e l’utilizzo di
energia sono vicine al costo marginale zero, perché sfruttano in maniera
intelligente l’energia solare ed eolica. La sfida è stata la creazione
di una infrastruttura; una volta ammortizzati i costi, i vantaggi sono
incalcolabili. E comunque i costi sono destinati ad essere abbattuti: negli anni
Settanta un Watt di energia solare costava 66 dollari, oggi 66
centesimi. Attualmente il 27 per cento del fabbisogno energetico della
Germania è coperto da energia verde ed entro il 2030 si arriverà al 35
per cento. Ricorda la giornata di maggio in cui il 75 per cento
dell’energia utilizzata in Germania proveniva dal solare dall’eolico?
Creata l’infrastruttura, è sufficiente mantenere puliti i pannelli
solari piuttosto che la turbina per l’eolico o la pompa per il
geotermico, a costi minimi. Ei badi che solo il 7 per cento dell’energia prodotta in
Germania oggi viene dalle grandi industrie, il resto è appannaggio di un
sistema cooperativo che collega i privati».
Un esempio di quello che lei chiama Commons collaborativo?
«In futuro le società che avranno successo saranno quelle capaci di
aggregare reti, attraverso una gestione non verticale ma orizzontale,
per organizzare e condividere nella maniera più efficiente beni e
servizi. Si tratta di un nuovo modello cooperativo destinato a
soppiantare quello delle grandi imprese protagoniste del modello
capitalistico, il cui ruolo dovrebbe diventare quello di mettere a
disposizione il loro know how per gestire il flusso dell’energia,
insegnare come diventare produttori in proprio, ridurre i costi… Quanto
allo scoglio del costo iniziale della piattaforma logistica, si tenga a
mente che il computer all’origine costava milioni di dollari, mentre
oggi la stessa Ibm si è resa conto che non aveva più margini di guadagno
in questo ambito e si è convertita alla consulenza e alla gestione
delle informazioni».
Figura centrale del nuovo paradigma socioeconomico è il prosumer.
Sappiamo che con questo neologismo lei identifica la persona che,
sfruttando l’Internet delle cose, produce e usufruisce al tempo stesso
di beni e servizi. Ma al di là delle competenze,
quali sono le attitudine morali che lo connotano, dato che, ad esempio,
sarà chiamato in continuazione a condividere ciò che ha creato o ciò che
è stato creato dagli altri?
«Chiunque può essere un prosumer. È un processo inarrestabile, tanto più
che sta invadendo il mondo fisico e non è più confinato in quello
virtuale. Oggi si usa energia rinnovabile e non inquinante. È sempre
più diffusa la tendenza a operare con software open source, cioè aperti a tutti,
sia per l’utilizzo, sia per apportarvi perfezionamenti. Entro cinque
anni in ogni scuola americana ci sarà una stampante 3D, che lavora con
materiali riciclati per produrre cose che avranno bisogno di un decimo
del materiale finora necessario. Per i ragazzi di oggi, vogliamo
chiamarli nativi digitali?, creare nuovi prodotti o rendere disponibili
servizi a queste condizioni e condividerli con gli altri sarà del tutto
normale. Non è accaduta la stessa cosa con la musica, i video,
l’informazione?».
Quindi sarà naturale collaborare, condividere, dare il proprio
contributo a software non più brevettati ma open source, preferire
l’accesso alle cose anziché il possesso: tutto ciò sta a indicare che
non è in gioco solo l’avvento di un nuovo paradigma economico, bensì una
nuova cultura, un nuovo modo di vedere il mondo, una nuova gerarchia di
valori…
«La nuova piattaforma rende evidente tale processo perché si basa su una
tecnologia che si alimenta di collaborazione e condivisione, è
trasparente, democratica, non centralizzata. Al contrario, il mercato
dei capitali è verticale, gerarchico. Ora però è scoccata l’era
dell’accesso. E, certamente, è implicata una questione morale. Le faccio
l’esempio dei giocattoli. Nel mondo capitalista un genitore comprava un
gioco a suo figlio, gli diceva “è tuo, abbine cura”. Era una prima
educazione alla proprietà privata. I genitori di oggi invece frequentano siti
dove, con un sistema di crediti, possono prendere un gioco ai loro
bambini, farli giocare, finché, quando sono più grandi e non gli
interessa più, lo possono riportare sul sito e recuperare crediti…
Registriamo qui un costo marginale prossimo allo zero, ma ora ci importa
sottolineare come cambi radicalmente il concetto di proprietà, di come
il bambino impari fin da piccolo che l’essenziale è l’accesso, non la
proprietà. Per la prima volta, da John Locke, muta l’idea di proprietà. I
giovani non hanno più interesse a possedere un Cd, un film, un’auto,
preferiscono averne accesso, condividerli con i loro amici. Lo stesso
sta accadendo con le case per le vacanze: anziché affittare un albergo,
ci si scambia la casa».
Più capitale sociale, meno capitale finanziario
Possiamo sintetizzare il senso della rivoluzione in corso dicendo che il
capitale sociale acquisterà sempre più peso rispetto al capitale
finanziario?
«Mi piacerebbe avere ancora quarant’anni per vivere questo momento
storico! Il capitale finanziario manterrà un ruolo, ma inserito in un
contesto nuovo e diverso, che, in qualche modo, mescola il meglio di
socialismo e capitalismo. Nei Commons collaborativi ciascuno diventa
imprenditore e al tempo stesso consumatore. Noi siamo cresciuti
all’ombra del pensiero di Adam Smith, secondo il quale l’individuo deve
preoccuparsi dei propri interessi e disinteressarsi della collettività;
in questo modo, anche la società ne avrebbe tratto giovamento.
Nell’epoca dei Commons collaborativi invece ciascuno può farsi
imprenditore e contribuire al benessere della società, non in virtù
di una qualche mano invisibile, ma del fatto che metterà in comune le
sue “creazioni”, usufruendo al tempo stesso di quelle degli altri,
spesso in modo gratuito. Il capitale finanziario resta necessario, ma in
un sistema totalmente mutato, come insegna il fenomeno del
crowdsourcing: gruppi di persone danno liberamente il loro contributo
per un progetto in cui credono, permettendo all’imprenditore sociale di
turno di dare forma alla sua idea, con la speranza di trarne collettivamente
vantaggio. Wikipedia è un bell’esempio di questa condivisione del
sapere. Le imprese non profit e profit in questa fase si stanno
mescolando, le prime cercando risorse all'esterno, le altre muovendosi
verso logiche non profit».
I fenomeni che lei ha descritto, partendo da argomenti di argomento
economico, hanno con ogni evidenza implicazioni culturali e morali, se
non religiose, che abbiamo più volte toccato. All’origine del suo lavoro
esiste anche una motivazione di questa natura?
«Credo che esistano delle consonanze profonde tra la portata per così
dire culturale e morale dei fenomeni che ho spiegato e la religione, da
sempre fondata sulla condivisione e non sul possesso, sul dare anziché
sull’avere. Sono molto preoccupato dal cambiamento climatico e
dall’impatto devastante che già dispiega e dispiegherà in futuro.
Tantissime popolazioni sono già toccate dal venir meno della
disponibilità di cibo in alcune parti del pianeta e dall’assenza di
acqua. Ne La civiltà dell’empatia ho prefigurato anche la possibilità di
un’estinzione del pianeta, qualora non invertissimo la rotta. Ogni
aumento di un grado centigrado delle temperature si moltiplica per sette
volte in precipitazioni, inondazioni, siccità. La Terra è sottoposta
uno stress eccessivo. È drammatico: i capi di Stato dovrebbero avere
questo tema come priorità assoluta, trattandosi della questione della
sopravvivenza dell’uomo, e invece… Io credo che la società a costo
marginale zero possa aiutarci ad affrontare il problema, perché si
declina come società sostenibile (preferisco però il concetto di
impronta ecologica a quello di sostenibilità): possiamo ridurre i
consumi e gestire meglio le risorse. Ecco perché ho scritto questo
libro».
In che modo questo progetto interseca il ruolo delle religioni?
«Ora, mi ha molto colpito che Bergoglio, di cui non sapevo nulla,
abbia scelto il nome di Francesco. San Francesco è stato un
rivoluzionario, ha posto la difesa dei poveri e il rispetto del creato
al centro del suo messaggio. Il sistema capitalistico ha sfruttato la
Terra, per rifornirsi di energia e produrre ogni sorta di bene da
commerciare in vista del guadagno. So che papa Francesco ha vissuto per
tanti anni nei barrios argentini e si è occupato delle persone più
indigenti. Anch’io da ragazzo ho operato come volontario nei quartieri
più poveri di New York. Certo, è fondamentale aiutare la singola persona
che ha bisogno, però per questa via non cambiamo alle radici la società
e il sistema generale resta immutato. Per produrre un cambiamento reale
e duraturo, che non riguardi solo qualche gruppo ma tutti gli uomini,
le creature e l’ambiente in cui viviamo, dobbiamo ripensare il modello
economico, trascendendo il presente alla luce di una visione più ampia e
generosa. Solo così possiamo coltivare una speranza per il futuro. E io
personalmente nutro la speranza che la mia proposta di una società a
costo marginale zero, fondata sulla condivisione, le energie
rinnovabili, il diritto all’accesso anziché lo sfruttamento, possa
risultare interessante anche per la Chiesa. Mi piacerebbe tanto sapere
qual è il pensiero di papa Francesco a tal proposito».