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giovedì 12 settembre 2024
 
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Jessica Rossi: «Portare il tricolore conta più di una medaglia d'oro»

19/07/2021  Si sono aperti il 23 luglio i Giochi di Tokyo tra paure (Covid) e ambizioni (tutti puntano a salire sul podio). La campionessa del tiro a piattello e alfiere azzurra (insieme con Elia Viviani) si confida a Famiglia Cristiana: «Ho sognato di andare alle Olimpiadi e magari di vincerle. Ma la bandiera mai e poi mai ero arrivata a immaginarla»

Nella materia di cui sono fatti i sogni di Jessica Rossi la stoffa del Tricolore non c’era. Troppo anche per sognarlo. Anche se era ora perché il tiro a volo, nei 24 anni di servizio del Ct Albano Pera, ha portato all’Italia un tesoro degno di Priamo: oltre 500 medaglie internazionali, circa la metà d’oro. Il conto preciso l’ha perso pure lui, per cui lo sport è un hobby (nella vita vende scarpe). In Jessica aveva visto già a 15 anni quelli che chiama gli «occhi diversi», la concentrazione che serve a cercare la vittoria facendo sbuffare ai piattelli polvere rosa. Jessica Rossi ha mantenuto la sua promessa d’oro con 99 centri su 100 a Londra 2012. A Tokyo 2020, diventato 2021, realizza anche il sogno mai osato: il 23 luglio, alla Cerimonia di apertura, pur senza pubblico a causa delle restrizioni dovute alla pandemia, porta la bandiera con Elia Viviani, pistard: per la prima volta in due. Questione di pari opportunità.  

La sua realtà di oggi somiglia ai sogni della bambina Jessica?
«Fino a pochi giorni fa sì, ho sognato fin da subito di andare alle Olimpiadi e magari di vincerle. Da quel lato posso dire di essermi tolta le mie soddisfazioni, ma la bandiera mai e poi mai ero arrivata a immaginarla».
Nemmeno quando ha visto sul display il numero del presidente del Coni Giovanni Malagò?
«Lì sì, ci ho pensato per un attimo: sapevo che il giorno dopo avrebbero ufficializzato i nomi e soprattutto perché era un’ora strana. Quando mai ti chiama alle otto e mezza di sera se non c’è stato un evento? Mi ha fatto promettere di non dirlo a nessuno, per evitare fughe di notizie. Ma a mamma l’ho detto subito, glielo dovevo».

Come si immagina quella sera?
«Penso che per un’atleta non ci sia riconoscimento più importante».
A Londra vinse a vent’anni, com’è cambiata Jessica Rossi?
«Sicuramente è più matura, a vent’anni vivi tutto senza renderti conto fino in fondo dell’importanza, è l’età dell’inconsapevolezza. Per certi versi è più semplice, sei più spensierato. Dopo Londra è stato difficile gestire la responsabilità dell’oro: sono arrivata a Rio con gli occhi di tutti puntati addosso ed è stato più complicato».
 Non le era piaciuto il cambio di regolamento. E adesso?
«Sono cambiate le regole di nuovo: ora abbiamo una qualificazione lunga, 125 piattelli, e mi piace perché dà modo di recuperare. Mi piace poco, invece, il fatto che in finale si azzeri il punteggio di qualifica. Lì si tirano i primi 25 piattelli; arrivati a 25 esce il sesto, dopo i 30 il quarto e così via».
Per tirare quando la posta in gioco si alza che testa ci vuole?
«Fredda e sempre concentrata, l’Olimpiade è una gara diversa perché sai quanto è importante, ma se riesci a pensare che anche lì vai a fare quello che fai tutti i giorni ti semplifichi mentalmente le cose». 
Che rapporto ha con l’errore?
«Non si tratta di dimenticare il piattello sbagliato, ma di accettarlo rovesciando la prospettiva: pensare “li devo rompere tutti” ti mette davanti a una cosa troppo difficile; dirsi “devo sbagliarne uno in meno degli altri” è meno ansiogeno. L’errore è fisiologico, sai che ci sarà. Quello che conta è concentrarti subito sul tiro successivo». 

 

Come ci si allena a gestire questo?
«L’esperienza aiuta, in passato nelle finali se sbagliavo un colpo rischiavo di portarmi dietro quello “0” e poi di farne altri. A Londra temevo di non riuscire a riconcentrarmi subito se fosse arrivato uno “0” in finale. L’applauso del pubblico (che stavolta non ci sarà perché l’Olimpiade è a porte chiuse, ndr) arrivato in quel momento mi ha aiutato a gestire la tensione, ma il piattello successivo l’errore è stato il più difficile».
È vero che un tiratore in fondo gareggia sempre contro sé stesso?
«Sì, il vero avversario siamo noi stessi e il piattello, gli altri non sono avversari, ognuno fa la propria gara». 
Come si relaziona in gara con quello che fanno gli altri?
«Guardo la classifica solo alla fine».
Esiste il tiro perfetto?
«Sono pignola, in allenamento curo la tecnica. Ma ai Giochi conta solo rompere il piattello e pazienza se il gesto tecnico è poco pulito».

Jessica fuori dal tiro è la stessa che vediamo in pedana?
«Sono la stessa persona, ma emotivamente un po’ diversa. Mi emoziono tantissimo quando da fuori vedo le gare degli amici. Se tocca a me sono più fredda, ma per la bandiera ho pianto».
Come trova la concentrazione prima di una gara?
«Cerco di rilassarmi, ascolto musica, leggo un libro, subito prima di andare in pedana inizio a visualizzare mentalmente gli schemi dei piattelli, ma appena infilo le cuffie antirumore mi viene facile isolarmi dal mondo esterno».
Biblioteca e colonna sonora per Tokyo?
«La biblioteca no, non c’è un autore o un genere da gara: prima di partire, con gli ultimi acquisti mi faccio guidare dall’istinto. Può essere tutto, dal thriller al romantico, per la musica invece sempre Ligabue: la colonna sonora della vita». 
A Londra dedicò la medaglia d’oro alla sua Crevalcore ferita dal terremoto. Oggi questa bandiera?
«Sarà scontato, ma all’Italia. La responsabilità è ancora più grande per quello che abbiamo passato come Paese in questo anno e mezzo. Spero tanto che questa Olimpiade segni un momento di ripartenza». 
Ha già preso accordi con Elia Viviani, il suo compagno di sfilata?
«Ancora no, partiremo per Tokyo in momenti diversi. L’ho conosciuto nei giorni scorsi ed è una bellissima persona. Come modo di pensare ci siamo intesi subito, sono molto contenta di condividere con lui questa esperienza: adesso speriamo che qualcuno ci spieghi come fare a portare la bandiera in due».

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