«Di
fronte a un crimine efferato e alla condanna a morte, dicevo: “Perché
aspettare? Sparategli subito!”. Quando poi vedevo i manifestanti
con i cartelli contro la pena di morte il giorno dell’esecuzione,
pensavo: “Perché sprecare tempo?”. Se mi avessero ascoltato,
oggi non sarei qui».
Così Joaquín José Martinez racconta come da acceso sostenitore
della pena capitale è diventato un testimone che gira le città
europee per difendere il diritto alla vita. È un
ex dead
man walking,
un ex “uomo morto che cammina”, dopo che per tre anni è stato
ingiustamente recluso nel braccio della morte.
Ha raccontato di
recente la sua esperienza in Italia, agli studenti dell’Università
Cattolica di Milano, dove è stato invitato dalla Comunità di
Sant’Egidio.
Nato in Ecuador,
cittadino spagnolo, con una buona famiglia e un’infanzia felice
alle spalle, a 24 anni era un esempio riuscito dell’American
dream,
il sogno americano. Viveva a Tampa in Florida, dove aveva due figlie
e una separazione in corso. Proprio per alcune accuse infondate della
ex moglie, viene arrestato, sotto gli occhi delle figlie, per
l’assassinio di una giovane coppia. Il ragazzo ucciso è un
trafficante di droga, nonché il figlio di un ufficiale di polizia.
Serve subito un colpevole: Joaquín,
che nel giorno dell’omicidio si trovava a Disneyland con la nuova
fidanzata, viene incredibilmente condannato alla pena capitale.
«Era
il 1997»,
racconta, «e
a quell’epoca l’esecuzione era solo con la sedia elettrica. Si
stava iniziando a discutere se fosse il metodo “migliore” dopo
che in alcuni casi un voltaggio eccessivo delle scariche elettriche
aveva fatto soffrire molto i condannati. Nel braccio della morte, i
poliziotti, mentre facevano alcuni test, passavano davanti alle celle
e ridendo dicevano: “La
prossima volta tocca a voi”».
Joaquín inizia a
conoscere i suoi compagni di detenzione, alcuni probabilmente
innocenti come lui, altri colpevoli di crimini efferati. Ma tutti
umani. «Fino
a quel momento, non avevo più fiducia nel sistema che mi aveva
incarcerato ingiustamente, ma pensavo ancora che la pena di morte
fosse “giusta”. L’incontro con loro mi ha cambiato, ho
riscoperto la loro umanità e come lo Stato abbia il
dovere di essere migliore, proprio per dire che è sbagliato, sempre,
uccidere. Oggi, purtroppo, tutte le persone detenute con me sono
state uccise».
In
particolare, Joaquín
si commuove ricordando Frankie, 20 anni nel braccio della morte prima
di morire per un cancro non adeguatamente curato: «Era
solo, senza amici, senza parenti, senza lettere da fuori. Gli
mostravo le cartoline che ricevevo da mezzo mondo e gli descrivevo le
città europee. Era stato condannato per lo stupro di una ragazzina
di dieci anni, chiedeva di fare il test del dna per dimostrare la sua
innocenza, ma la risposta era sempre: “Perché spendere soldi per
un assassino?”».
Frankie era un malato
psichico, viveva con le catene ai polsi e ai piedi: «Quando
urlava per le crisi, le guardie lo picchiavano. Sentivamo vibrare le
pareti per i colpi, poi finiva in infermeria. Poi non lo abbiamo più
visto, pensavamo fosse stato ucciso, finché l’ho rivisto in
infermeria, scheletrico, non mi riconosceva, malcurato e agonizzante
per un cancro».
Una volta morto, gli avvocati ottennero di fare il test del dna:
risultò innocente.
«La
malattia psichica»,
spiega Joaquín, «è
molto comune nei bracci della morte. Al terzo anno, anch'io stavo
iniziando a parlare da solo. Vivi in attesa che nel cuore della notte
vengano a misurati il cranio o a darti il rasoio per raderti la
caviglia, dove metteranno il laccio della sedia elettrica».
«Ma
io»,
aggiunge, «sono
stato un privilegiato; nei tre anni nel braccio ho avuto il sostegno
di molti, dal Re di Spagna al Papa, dal Parlamento Ue a tante
associazioni, come Sant’Egidio, e cittadini comuni. La mia
famiglia, un’eccezione rispetto a quelle di molti detenuti, ha
potuto pagare un buon avvocato e dei consulenti scientifici che hanno
ottenuto la revisione del processo. I soldi purtroppo contano molto».
Stesso giudice, stessa
aula: dopo cinque anni di detenzione e tre nel braccio della morte,
Joaquín viene riconosciuto innocente. Liberato, torna in Spagna. «In
carcere non esisteva uno specchio, ho scoperto allora come ero
cambiato, avevo i capelli brizzolati. Il console spagnolo, venuto per
accogliermi, mi ha chiesto cosa volevo mangiare. Sono scoppiato in
lacrime. In carcere non avevo mai potuto scegliere nulla».
Infine, “l’ex
condannato a morte” racconta il suo giorno più difficile da quando
è stato liberato: «Alcuni
anni dopo, mio padre stava andando a vedere la partita Real
Madrid-Valencia e venne ucciso in un incidente stradale da un
diciassettenne. Ero arrabbiato, nel corridoio dell’ospedale dissi:
“Vado e lo uccido”. Mia madre mi scosse e mi rispose: “Non hai
imparato niente!”. Ecco, scegliere di perdonare quel ragazzo è
stata la cosa più difficile degli ultimi anni, ma l’ho fatto e
questo ci rende migliori».