Il tema del lavoro, del precariato, è un sempreverde del Festival di Cannes. Nella passata edizione, quella del 2019, il regista Ken Loach in concorso aveva puntato il dito contro i soprusi della gig economy con Sorry We Missed You. Oggi ad aprire la Quinzaine des Réalisateurs c’è lo scrittore e cineasta Emmanuel Carrère con Between Two Worlds. Juliette Binoche presta il volto a un talento della penna: vuole raccontare l’esistenza di chi, tutte le notti, pulisce le cabine dei traghetti che salpano dalla Francia per andare in Inghilterra. Veste i panni di una donna abbandonata, alla disperata ricerca di un modo per sopravvivere. Diventa “un’infiltrata”, finge per poi dar voce agli ultimi, e sensibilizzare chi invece preferisce chiudere gli occhi.
Il film è tratto dal libro Le Quai de Ouistreham della giornalista Florence Aubenas. Ouistreham è il porto della città di Caen, ed è uno dei “due mondi” a cui fa riferimento il titolo. La Manica separa Caen da Portsmouth, ma la divisione non è solo geografica. La borghesia non vuole mescolarsi alla realtà operaria. Ognuno degli inservienti ha pochissimi minuti per rifare i letti, far splendere il bagno, e passare all’ambiente successivo. I ritmi sono massacranti, non ci sono tutele, non ci si può ammalare, e il guadagno è minimo.
Carrère fotografa un settore dalle regole durissime, dove i poveri si muovono come fantasmi. È difficile anche solo farsi salutare, guadagnare il rispetto di chi li circonda. La società viene descritta come un sistema in crisi, profondamente classista, che non sa proteggere e spinge verso l’abisso i più deboli. In parte Carrère aveva già affrontato il problema in L’amore sospetto, che era ispirato al suo Baffi. Si partiva da un presunto taglio della barba mattutino per arrivare al rischio di essere internati. I toni erano di sicuro più giocosi.
In Between Two Worlds il fallimento di ogni modello è lampante, la prima vittima è la dignità. L’invito è a ragionare sul presente, su una struttura piramidale che distrugge l’essere umano. Ma Carrère non vuole fare un comizio. La sua è una storia di sentimenti, di piccoli gesti, dove non manca l’ironia. Il paradosso è che la Binoche sembra essere bloccata su una nave che non prende mai il largo. La metafora è quella di un universo troppo ancorato ai suoi antichi retaggi, che rifiuta ogni tipo di inclusione. Si ragiona anche sulla menzogna. È giusto mentire per un fine superiore? A rispondere deve essere il pubblico.