E' finita come un po' tutti avevano previsto: la Juventus si conferma campione d'Italia, dopo aver dominato, fin dalle battute iniziali, un campionato nel quale non ha mai avuto davvero un rivale credibile, nonostante l'ottimo comportamento del Napoli. Scudetto numero 29, secondo la contabilità ufficiale, 31, secondo quella del popolo juventino.
Sembra strano pensare - mentre i giocatori raccolgono l'abbraccio dei tifosi - che in un tempo non così remoto la squadra era finita in B per calciopoli, inanellando poi una serie di desolanti piazzamenti, dopo una fiammata d'orgoglio all'indomani del ritorno nella massima serie. E proprio da questa considerazione bisogna partire per cogliere il senso e la portata di questa vittoria. Con Andrea Agnelli al timone - di nuovo dopo molto tempo un Agnelli al vertice -, la società ha saputo ricostruirsi dalle fondamenta e ha trovato in Antonio Conte l'interprete ideale dell'identità juventina, oltre che un professionista capace, moderno, maniacale nella ricerca della perfezione. Perderlo nella prossima stagione - come qualche parola del tecnico fa temere - sarebbe un duro colpo.
Fra i giocatori, difficile individuare un protagonista su tutti, perché nel collettivo la squadra ha fondato la sua forza. Buffon ha giocato una delle sue migliori stagioni, Barzagli è stato semplicemente il miglior difensore italiano; Bonucci è cresciuto, come Marchisio; è tempo di considerare Vidal per quello che è, un fouriclasse, perlopiù low cost; Pogba è il futuro; Vucinic il migliore in attacco, il reparto che subirà le maggiori correzioni, vista la difficoltà di tramutare in gol la mole di gioco sviluppata...
La sensazione è che, con questo scudetto, la Juventus sia definitivamente tornata ad occupare il suo posto: è la squadra-società con cui misurarsi e competere se si vuole vincere. Prima a dotarsi di uno stadio di proprietà, fattore imprescindibile per la sostenibilità economica, ora e per il secondo anno consecutivo prima sul campo, è più che mai l'amata-odiata Juventus da battere, senza la quale il calcio italiano non sarebbbe quello che è.
Paolo Perazzolo
Non sa quando taglierà la barba ma ha deciso che dirà addio alla Nazionale dopo il Mondiale del 2014 in Brasile. Allora avrà 35 anni e, secondo lui, ci sono tanti giovani che meritano di prendere il suo posto. Per quanto riguarda le squadre di Club, non si pronuncia. Appenderà scarpini e cuore al chiodo quando non sarà più decisivo in campo. Per la prima volta Andrea Pirlo, “il calciatore di tutti”come lo definisce Cesare Prandelli, si racconta in un libro Penso, quindi gioco (Mondadori). La prefazione è proprio del Mister della Nazionale che, già tantissimi anni fa, riconobbe in lui un super campione. Erano i tempi in cui militava nella categoria Giovanissimi del Brescia ed era un mingherlino di due o tre anni più giovane rispetto ai suoi compagni.
E' al suo quarto scudetto: hanno tutti e quattro lo stesso valore?
“Uno scudetto è come un diamante. Non ne esiste uno uguale a un altro, eppure sono tutti belli alla stessa maniera”.
Ha elogiato pubblicamente Antonio Conte. E' l' allenatore con cui si è trovato meglio?
“A livello di rapporti umani, Carlo Ancelotti resta insuperabile. Antonio Conte, però, è per distacco quello che mi ha stupito di più, in positivo. Non stacca mai, non molla niente, si arrabbia anche quando stiamo vincendo 4-0. Al suo primo giorno da allenatore della Juventus ci ha convocati tutti in palestra, facendo un discorso molto semplice: “Sono appena arrivato, ma la Juventus è reduce da due settimi posti consecutivi. Vi dico solo una cosa: smettiamola di fare schifo”. Ci ha conquistati così".
Ha rischiato più volte di andare a giocare all'estero. Ha qualche rimpianto?
“Zero rimpianti, anche perchè all’estero prima o poi ci finirò. Magari neanche fra troppo tempo. Negli anni sono stato molto vicino a Barcellona, Chelsea e Real Madrid. Poteva andarmi peggio”.
Il calciatore che ammira di più? E chi vorrebbe avere in squadra?
“Rispondo dicendo che il mio primo idolo è stato Lothar Matthaeus, il primo giocatore che ho ammirato e amato. In squadra non mi dispiacerebbe avere Zlatan Ibrahimovic: dove va, vince”.
La descrivono come timido e schivo ma i suoi compagni non la pensano
così... E' vero che Rino Gattuso è stato il compagno di squadra preso
più di mira?
“Sì, gliene ho combinate di tutti i colori. Una volta mi sono chiuso
nell’armadio di camera sua, in ritiro a Coverciano, e quando si è
addormentato sono saltato fuori urlando. Ha rischiato l’infarto”.
Il suo passatempo preferito in ritiro?
“La playstation. Restano quasi leggendarie le mie sfide con Alessandro
Nesta. Lui sceglieva il Barcellona, io anche”.
Andrea Pirlo è un campione trasversale, capace di portare il tifoso
oltre il concetto di tifoso per una sola squadra, lei tifa ancora Inter?
“Quando giochi tifi per la squadra in cui lavori...”.
Più volte si è confrontato con l'invidia, anche degli stessi compagni.
Le sue prime lacrime...
“Giocavo nelle giovanili del Brescia, i miei compagni non mi passavano
la palla perché ero più bravo di loro. Sono scoppiato a piangere, in
mezzo al campo, non riuscivo a smettere. Comunque, non conosco un uomo
che almeno una volta non abbia pianto. Fa bene, è la reazione di una
persona sincera”.
Ha mai pensato di smettere perché demotivato?
“Dopo la finale di Champions League persa con il Milan a Istanbul,
contro il Liverpool. Ci ho pensato, sì, ma se avessi smesso avrei perso
tante cose belle per strada. Gli scudetti con la Juventus ad esempio”.
Il ricordo più bello e più triste di questi anni...
“Il più bello non è sportivo, è la nascita dei miei due figli. Per
quanto riguarda la tristezza, devo ripetermi: la notte di Istanbul è
stata da incubo. Io quel Milan-Liverpool non sono mai riuscito a
rivederlo”.
Se guarda il futuro si vede allenatore o manager?
“Più manager che allenatore. Mio padre ha un’azienda siderurgica e una
che produce vini, io mi interesso molto a entrambe. E poi mi occupo di
compravendita di immobili. Insomma, se qualcuno è ancora schiavo dello
stereotipo del calciatore che quando smette non sa cosa fare, si sbaglia
di grosso”.
Ha trasformato la famosa frase di Cartesio "Cogico Ergo Sum" in “Penso,
quindi gioco... E' questo il suo segreto, oltre alla fortuna di avere
due piedi d'oro?
“Ho la testa. Non vedo perché non dovrei usarla quando lavoro”.
Ha due splendidi bambini: seguono il calcio? Che papà è?
"Nicolò e Angela. Diciamo, più che il calcio seguono il papà. Nicolò
gioca da ala sinistra: almeno uno che corre veloce in famiglia c’è.
Credo di essere un papà molto presente, nonostante gli impegni
sportivi”.
Avere una famiglia che l'ha sempre sostenuta è stato importante per la
sua carriera? “Fondamentale. La famiglia è il primo dei valori”.
I calciatori sono spesso degli esempi da seguire per i giovani, nel
bene e nel male. Si sente addosso questa responsabilità?
“Tutti i giorni, anche in allenamento. Il complimento più bello che ho
ricevuto è stato quello di un papà. Indicandomi, ha detto a suo figlio:
“Guardalo. Spero che da grande tu possa diventare come lui. Non come
calciatore, ma come persona”. Un complimento senza prezzo”.
Nella sua bacheca manca il Pallone d'Oro...
“E sempre mancherà. Quello lo vincono gli attaccanti. Però mi consolo
con il Mondiale del 2006. E dentro di me, ho una convinzione: vincerò
quello del 2014!".
Monica Sala
Con tre giornate d’anticipo, la Juve è campione d’Italia per la 29^ volta.
La Vecchia Signora conquistò 5 scudetti di fila dal 1930-31 al ’34-’35, mentre il bis era già arrivato 6 volte: nel ‘61 con allenatore Carlo Parola, nel 1973 con il ceco Cestmir Vycpalek, zio di Zeman scomparso 11 anni fa; nel ’78 e ’82 fu con Giovanni Trapattoni; nel ’98 e 2003 era stato con Marcello Lippi.
Zbigniew Boniek, fu alla Juve che lei trovò notorietà, dal 1982 all’85 divenne uno dei giocatori più popolari d’Europa.
“Bei ricordi, ma appunto sono passati 30 anni”.
Fu terzo ai mondiali di Spagna, battendo nella finalina la Francia di Michel Platini, poi suo compagno in bianconero. Con la Juventus perse la finale di coppa dei Campioni, ad Atene, segnò il tedesco Magath per l’Amburgo, ma si consolò subito con la coppa Italia.
“La prima stagione fu di ambientamento, per me e Michel, nuovi stranieri”.
L’anno successivo conquistò scudetto e coppa delle Coppe, poi la Supercoppa Europea, nelle neve, contro il Liverpool. Nell’85 la coppa dei Campioni, sempre contro gli inglesi, nella tragica serata dell’Heysel.
“La Juve in Italia dominava anche prima di noi, ma in Europa aveva conquistato solo la coppa Uefa, nel ‘77”.
A Torino divenne il “bello di notte”, tra i campioni preferiti dall’avvocato Gianni Agnelli.
“Bei ricordi, ma non vivo di quelli, per fortuna”.
Per anni è stato opinionista Rai, oggi che fa?
“Sono tornato in Polonia, da ottobre presiedo la federazione. Ho tante cose da fare, mi hanno eletto per cambiarla, perché si faccia calcio nella maniera più professionale possibile, dal momento che i talenti ci sono”.
Michel Platini è candidato all’eredità di Joseph Blatter, come presidente della Fifa. E’ l’uomo giusto?
“E’ un amico, dunque con me qualsiasi cosa faccia parte già 1-0, nel senso che avrà sempre il mio voto”.
Da allenatore retrocedette in serie B, al debutto con il Lecce, nel ’90.
“Tenni quasi a battesimo Antonio Conte. Già a 21 anni mostrava la sua intelligenza e il potenziale da tecnico. Era molto carico, trascinava in campo e in spogliatoio, ripetendo un “Dai ragazzi". Immaginavo le motivazioni che dà ora ai bianconeri”.
Per la grinta in panchina ricorda Giovanni Trapattoni?
“Per nulla. Non amo gli accostamenti, è un errore che fanno in tanti”.
Dica almeno chi ammira fra i bicampioni...
“Scelgo tre italiani: Claudio Marchisio, Andrea Pirlo e Buffon. E naturalmente Vidal, che ha chiuso alla grande”.
E’ sfuggita la doppietta Europa-scudetto, centrata da lei, nell’84...
“La Juve ha rivinto il titolo senza problemi perchè è la più forte e solo il Napoli per un po’ l’ha contrastata. Imporsi in Europa è molto difficile, le più accreditate erano Barcellona, Bayern Monaco e lo stesso Real Madrid, il Borussia è una sorpresa relativa. Anche i bianconeri avevano la possibilità di arrivare in fondo ma era impronosticabile, tanto ha inciso anche il sorteggio dei quarti, contro i bavaresi”.
Vanni Zagnoli
Il salotto buono, innanzitutto: piazza San Carlo s'è andata riempiendo man mano che gli ultimi minuti della partita Juventus-Palermo scivolavano via veloci. Se alle 17 c'era solo una bancarella piena zeppa di bandiere d'ogni misura, alle 17,15 la chiesa di San Carlo, quella di Santa Cristina e gli altri severi edifici barocchi dell'elegante centro del capoluogo piemontese osservavano ormai centinaia di tifosi scatenati. Come tradizione, attorno al Caval 'd Brons ecco crescere cori e danze.
Alle 17,45 via Roma era già un fiume in piena. Giovani, ma soprattutto famiglie. Una festa di popolo. In queste ore, nel centro di Torino la matematica si dissolve in fede. Granitica. Indiscutibile. Tutto - slogan, scritte, magliette, poster - celebra lo scudetto numero 31. Alla luce dei verdetti della giustizia sportiva a dire il vero sono 29. Ma in questa giornata speciale contano gli scudetti vinti sul campo. Le brutte pagine di Calciopoli, i processi, le condanne, sono incubi lontani. Almeno qui, all'ombra della Mole Antonelliana. Ora è tempo di gioia.
Un lento intreccio di auto sta segnando le vie d'accesso al centro: corso Francia fino a piazza Statuto, il lungo Po fino a piazza Castello, corso Vittorio Emanuele fino alla stazione di Porta Nuova. Sotto i portici viene venduta l'edizione speciale che il quotidiano La Stampa ha preparato a tempo di record. Dalle vetrine si scrutano gli schermi che rimandano le immagini del canale, il 252, che Sky dedica alla festa scudetto. Gli sguardi di tutti, però, fanno a gara per intercettare il pullman scoperto su cui la squadra sta attraversando a passo d'uomo la città: partenza dal parco più famoso, il Valentino; arrivo a notte fatta in piazza Solferino.
In mezzo, un'ampia porzione urbana imbandierata a festa: corso Cairoli, piazza Vittorio, via Po, piazza Castello, via Pietro Micca. Sembra d'essere tornati alla seconda metà degli anni Settanta quando gli scudetti arrivavano a grappolo. Rispetto a quella di allora, però, la Torino di oggi non deve fare i conti con la violenza e il terrorismo. E questo è un bene. Per alcuni profili, tuttavia, oggi è peggio di allora. Torino infatti è sicuramente una città economicamente sfinita per il protrarsi della crisi dell'auto (in Fiat migliaia di dipendenti continuano a dover tirar avanti con gli 800 euro della cassa integrazione) e socialmente disorientata (l'essere diventata più bella e più conosciuta, dopo le Olimpiadi invernali del 2006, non le ha ancora plasmato un'identità definita). L'assordante rumore dei clacson copre una strisciante angoscia esistenziale che uno scudetto non basta da solo a calciare via lontano.
Alberto Chiara
La contabilità federale tricolore dice 29, quella bianconera dice 31, perché il club si sente pienamente titolare dei due scudetti toltigli per Calciopoli. Sono tutti d’accordo invece nel dire che lo scudetto 2012-13 è meritatissimo, che il gioco migliore prodotto dal calcio italiano è quello della Juventus poi travasata dal citì Prandelli nella Nazionale, che la via indicata dalla società più amata d’Italia con la costruzione dello stadio di proprietà è l’unica vera riforma attuata, sia pure parzialissimamente, dal nostro mondo pallonaro. Persino sul piano del gioco, argomento sul quale non esiste al mondo competenza – e pazienza se spesso gaglioffa - superiore a quella italiana, più o meno sono tutti d’accordo: la Juventus di Andrea Agnelli presidente, di Giuseppe Marotta direttore generale e di Antonio Conte allenatore riesce a ottenere il massimo dai tifosi che riempiono lo stadio, visitano il museo, comperano i souvenirs ufficiali (comunque la maglia più venduta è sempre quella di Del Piero costretto a fare l’emigrante: un caso che in qualsiasi altro club sarebbe stato dinamite con tanto di miccia accesa), e riesce pure ad ottenere il massimo da giocatori che costano molto ma non moltissimo.
Le partite della Juventus sono spesso occasione di un buon calcio: che però non basta in Europa, questo proprio no, e quasi patetica è la ricerca bianconera del top player, il fuoriclasse che segnando molti gol garantirebbe il rendimento anche nelle coppe, sino ad ipotizzare un ritorno di Ibrahimovic, il supermercenario che nel 2006 ha lasciato la squadra, retrocessa in serie B, per andare a raccogliere milioni a Milano su due sponde, a Barcellona, a Parigi. E sino a trascurare il fatto che è già stato acquistato Llorente, attaccante spagnolo di Bilbao, alto ma chissà se anche grande.
La famiglia Agnelli, sempre bene dentro e intorno al club, potrebbe permettersi anche di concorrenziare arabi e russi investitori in squadre inglesi e francesi, potrebbe sfidare la disponibilità di denaro offerta dalle tifoserie ai club tedeschi e spagnoli, ma la Juventus vuole restare dentro una situazione economica almeno un poco intonata al fair play finanziario predicato dall’Uefa e alla crisi delle’Italia: spese alte sì, ma non mai folli, e picchi di guadagno quasi “onesti” (dunque i 12 milioni l’anno di Ibrahimovic non sono contemplabili).
In una storia lunga più di un secolo tante cose belle ha insegnato la Juventus al calcio italiano, concentrando e limitando apprendimento e frequentazione di quelle brutte ad un periodo corto, gli anni appunto Calciopoli. Il club che ha “fondato” uno stile, che ha riempito di giocatori la Nazionale, che ha vinto più scudetti di ogni altro, è adesso quello che ha preso la strada migliore se non per un risanamento spartano, quanto meno per uno stop alle pazzie. E la gestione di un caso che in ogni altra società sarebbe stato clamoroso, come quello dell’addio di Del Piero su comando dall’alto, nel silenzio ufficiale e senza troppe polemiche fra i tifosi, è stato un capolavoro: di perbenismo diplomatico dicono acidi quelli che bon possono permettersi contorsionismi simili, di forza societaria senza neanche un imbarazzo diciamo noi.
Antonio Conte ha vinto due scudetti di fila dopo due anni in cui la
Juventus era finita settima. E’ arrivato ai quarti di finale della
Champions League, ha valorizzato giocatori indigeni (Giovinco e ancora
più Marchisio), ha gestito benissimo Buffon riconoscendogli tutto il
carisma, dandogli la leadership che era di Del Piero, ma intanto
pretendendo e ottenendo che lui rimanesse giovane a costo di vendere la
sua anima al diavolo. Insomma Conte non ha sbagliato niente. E chissà
che riesca a non sbagliare anche adesso che, benché vicino alla
riconferma automatica con uno stipendio da record italiano confermato
anzi battuto (si dice di una sua facile ascesa ai 5 milioni l’anno, in
pratica un raddoppio degli emolumenti), lascia intendere che potrebbe
anche, dolorosamente ma realisticamente, staccarsi dal club di cui è
stato giocatore, capitano, allenatore, guru, insomma attore sommo per
tanti anni e per diverse parti, se non confortato dal sempre evocato
“progetto”: che in parole poverissime e intanto ricchissime vuole poi
dire impegno del club di spese forti per garantire al tecnico i
giocatori che lui vuole.
E adesso campionato ancora, per dirimere quelle pratiche che si chiamano
partecipazione alle coppe e retrocessione, intanto che la Juventus
lavora sul mercato e su Conte. Da ricordare, a chi invoca spese alte per
acquisti sicuri, che il colpo dell’anno sulle bancarelle italiane e
anche europee si chiana Progba, il cognome di un francese di colore
tolto dalla Juventus al settore giovanile del Manchester United con
appena un milione mezzo di euro e che ora, ventenne di valore assoluto,
centrocampista con anche tiro superforte e gran colpo di testa, vale
venti volte di più, almeno per quelle che sono le disponibilità di un
sceicco arabo o di un oligarca russo. Adesso bave di campionato anche
onde permettere ai tifosi bianconeri di gustare la caramella migliore,
più intensa di gusto, quella che si chiama crisi dell’Inter, la rivale
massima, l’aquila piombata con crudeltà da avvoltoio, secondo i tifosi
bianconeri, su morti e feriti di Calciopoli.
Gian Paolo Ormezzano