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mercoledì 11 settembre 2024
 
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Kamila Valieva, una bambina nel tritacarne della vittoria ad ogni costo

18/02/2022  Il caso della pattinatrice russa Kamila Valieva ha portato alla luce in piena Olimpiade un grande tema etico che riguarda i giovanissimi nello sport agonistico senior. Ecco qual è il contesto e quali sono le implicazioni

Più che un programma libero un braccio della morte metaforico, più che una gara un’agonia psicologica. Kamila Valeeva il 17 febbraio 2022 arriva sul ghiaccio dell'Olimpiade di Pechino con gli occhi di un cerbiattino davanti al fucile del suo cacciatore. Sembra concentrata ma è spaventata e si vede. E infatti sbaglia, tutto: un salto, un passaggio, un altro salto, nemmeno la trottola va a segno, sbaglia tutto dall’inizio alla fine, a ogni errore prova a ricomporsi e ripartire. Si vede che è una tortura. Quando finisce nei suoi begli occhi scuri c’è solo disperazione. Ci mette un secolo a uscire dal ghiaccio, si capisce che fa di tutto per non piangere. Sa già che l’oro è sfumato e forse sarebbe persino una liberazione quello scivolamento dal primo posto al quarto, per sé e per tutti, se non fosse che appena esce di pista non trova l’abbraccio che ne raccolga l’angoscia, come ci si attenderebbe da un’allenatrice in quei momenti terribili, ma uno sguardo gelido, anche un rimprovero dicono: pare che quell’unica frase letta sulle labbra di Eteri Tutberidze in russo significhi: «Perché hai mollato?».

DOPING SULLA PELLE DI UN'ADOLESCENTE

Come se ci fosse bisogno di chiedere perché, come se il perché non fosse stato per giorni e giorni sotto gli occhi di tutto il mondo. Come se non fosse stato un miracolo con il peso che aveva addosso portare a termine anche solo le precedenti prove fino ad affacciarsi all’ultima prova in testa alla gara. Kamila Valieva ha ancora 15 anni, perché il regolamento del pattinaggio di figura su ghiaccio prevede che si sia senior dall’anno solare in cui si compiono i 16. S’è presentata ai Giochi olimpici di Pechino 2022 arrivando da favorita nella gara individuale di artistico. Esile, giovanissima, elegantissima e tecnicamente inarrivabile. Sotto l’egida non del suo Paese, la Russia, ma del Comitato olimpico russo, l’unica condizione per cui possono partecipare, se risultati puliti ai controlli, mai accostati a vicende di doping e in regola con altri parametri previsti, gli atleti di quella Nazione sospesa per episodi pregressi di doping di Stato. Una sorta di quarantena olimpica in cui la Russia tuttora si trova. Tutto regolare finché in corso di Olimpiade non è arrivato (perché così tardi?) l’esito di un controllo antidoping eseguito due mesi prima, in cui Kamila Valieva è risultata positiva a un farmaco proibito contro l’angina. Dunque nel Paese sotto la lente per doping di Stato qualcuno potrebbe avere dopato una bambina. 

Sì ALLA GARA, NO ALLA MEDAGLIA

  

Ci si aspetterebbe una squalifica immediata, ma l’agenzia antidoping russa fa ricorso al Tas, il tribunale arbitrale dello sport di Losanna. Il Tas decide che la squalifica non si può applicare perché la ragazza, non avendo compiuto 16 anni, è in una categoria “protetta”. Non si getta su di lei il peso della sanzione, semmai la medaglia verrà ritirata ex post, al termine dell’esito del “processo sportivo” ed eventuali indagini si concentreranno sul suo staff. La contraddizione nel concetto di “protezione” è evidente: nell’anno solare dei 16 anni puoi gareggiare all’Olimpiade prima di compierli, hai l’età per partecipare e per vincere, ma non quella per essere squalificata se ti trovano dopata. La sentenza crea imbarazzo al Comitato olimpico internazionale che decide per una situazione di compromesso che scontenta tutti: Valieva prosegue la gara, ma nel caso in cui andasse a podio, niente cerimonia di premiazione, niente inni, né bandiere ma consegna delle medaglie dopo in privato. La soluzione fa discutere, perché priverebbe gli altri premiati, senza colpe né sospetti, delle gratificazioni cui hanno diritto. Se Valieva arrivasse terza, dicono le federazioni, la vincitrice e la seconda classificata subirebbero la sanzione con lei. Il ragionamento non fa una grinza. Anche se è chiaro a tutti che non renderebbe giustizia a nessuno lasciare la piccola Kamila, bambina in un tricarne, con il cerino della squalifica senza guardare oltre, se non altro perché è evidente che quello che c’è nel suo corpo non può essere una sua iniziativa, né può esserne considerata responsabile.

UNA SCUOLA VINCENTE E SPIETATA SOTTO ACCUSA

Alla fine, l’agonia agonistica di Kamila toglie le castagne dal fuoco al Cio a proposito di premiazione mancata, ma non sposta un problema che il mondo non può più ignorare. Viene fuori la storia di una scuola vincente ma spietata, si mette in discussione la bionda allenatrice Eteri Tutberidze che teorizza il fatto che alle ragazze non si deve volere bene, concetto esemplificato dallo spietato linguaggio del corpo a fine gara: se cadi niente abbraccio, nemmeno se hai 15 anni e sei in una valle di lacrime. Guardando indietro si vede una teoria di giovanissime straordinarie pattinatrici vincenti per una o due stagioni e poi sostituite da altre uguali a loro: giovanissime, bravissime ma meteore, forse masticate e sputate da un sistema che pensa solo a vincere stagione dopo stagione. È altrettanto chiaro che l’unico modo di fare giustizia e di “proteggere” gli atleti bambini è di evitare che gli adulti che ci sono intorno possano sacrificare i loro corpi e le loro giovanissime persone sull’altare della vittoria a tutti i costi.

NUOVE REGOLE IN VISTA

  

Il giorno dopo la sconfitta di Kamila e le sue cadute il presidente del Comitato olimpico internazionale Thomas Bach, dicendosi «turbato dalla freddezza dell’entourage di Kamila Valieva», annuncia che c’è già una norma pronta per portare a 17 anni il limite di età per competere da senior ai Giochi. Il prossimo congresso della Federazione mondiale degli sport del ghiaccio (Isu) discuterà l'innalzamento dell'età per partecipare a un grande evento, con un minimo di 17 anni, per passare a 18. «L'Italia sostiene questa necessità insieme a molti Paesi», ha affermato il presidente della Federghiaccio Andrea Gios.

CAMPIONESSE TROPPO PRECOCI, UNA LUNGA STORIA

Ci si domanda perché certi segnali non si riescano mai a intuire prima che uno scandalo scoppi in piena Olimpiade: anche perché il problema non è nuovo. L’età degli atleti e soprattutto delle atlete nelle discipline in cui si esplode presto, e in cui un corpo esile ed elastico è funzionale, è stata più volte ritoccata negli anni: quasi sempre ritocchi pensati dopo che si è innescata la corsa a dare in pasto i piccoli alle gare internazionali. Nella ginnastica era cominciata con Nadia Comaneci e Olga Korbut tra il 1972 e 1976, nel 1980 l’età è stata alzata a 15 anni nell’anno solare, nel 1997 a 16. Ma non sono mancati, dopo i casi in cui si sono truccati età e passaporti. Eppure non sempre davanti a età dichiarate, improbabili agli occhi ci si è interrogati a sufficienza. Stesso problema s’è posto nei tuffi con la tredicenne cinese Fu Mingxia campionessa olimpica a Barcellona 1992. Dopo, il limite per le gare senior è stato spostato a 15 anni nell’anno solare. Senior infatti è un concetto relativo, può cambiare a seconda dello sport. Ma non sempre e non in tutti gli sport la giovane età è così influente e qualche caso sporadico magari indica altri problemi.

LO SCANDALO ABUSI NELLA GINNASTICA USA, QUANDO GLI ADULTI NON VEDONO

  

Doping ed età troppo precoce non esauriscono i problemi che attorno allo sport agonistico possono nascere, specie se lo si lascia vivere in una bolla autoreferenziale in cui pesano ambizioni e sponsorizzazioni. Ce ne sono anche altri persino più gravi: chi non ricorda il drammatico recente caso di Larry Nassar medico della squadra olimpica di ginnastica americana condannato a oltre 176 anni di carcere dalla Corte della Contea di Ingham nel Michigan e ad altri 60 dalla Corte federale, per aver abusato per anni (tra il 1996 e il 2017) di tantissime ginnaste giovanissime, talvolta troppo per dare un nome a quanto stava loro accadendo, nel giro della Nazionale degli Stati Uniti. In quel drammatico processo molte ragazze, tra loro Simone Biles, hanno testimoniato in aula anni di violenze orribili e pressoché quotidiane in un clima di omertà generale, in cui la loro voce non veniva ascoltata benché molti nel giro sapessero. I vertici della Federazione sono stati azzerati. In un terribile documentario dal titolo Il prezzo dell’oro, oggi visibile su Sky Documentaries on demand, un vero pugno nello stomaco, si vede il ruolo dei genitori, che spesso o non avevano gli strumenti per rendersi conto di quello che avveniva in quegli studi medici a margine della palestra o avevano così fiducia nell’ambiente da non credere al disagio espresso dalle loro figlie. E vien da chiedersi, ora come allora, nella scarsa propensione degli organismi internazionali dello sport a farsi domande scomode prima che gli scandali esplodano, quanto incida il peso politico di Federazioni influenti come Russia nel pattinaggio e Stati Uniti nella ginnastica femminile. Quanto alle famiglie colpisce il fatto che, dove si verificano situazioni al limite del maltrattamento o oltre, non sempre ci sia la vigilanza necessaria. E forse lì incide un tema portato alla luce con straordinaria franchezza da André Agassi con il suo libro Open: il ruolo di genitori che proiettano sui figli giovanissimi le proprie ambizioni. Quanto peso hanno nei campanelli d’allarme che invece di suonare tacciono?

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