Fu tutto “merito” di una traduzione. Immerso nella calma delle Dolomiti, mentre si concede un momento di pausa estiva, il cardinale Walter Kasper, uno dei più stretti collaboratori di papa Francesco, insigne teologo e presidente emerito del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, si lascia andare a qualche confidenza: sul Giubileo straordinario della misericordia, sul Sinodo della famiglia e su quello imminente dei giovani, ma anche sul pontificato di Bergoglio. Con una sorprendente rivelazione: «Se il Giubileo straordinario indetto da papa Francesco è stato dedicato alla misericordia, fu anche merito di una traduzione…».
Eminenza, è stato più volte ricordato che, nel primo Angelus appena eletto Papa, Francesco ha menzionato il suo libro dedicato alla misericordia, un tema a lui caro, visto che poi decise di farne la parola chiave del Giubileo. Come venne a conoscenza del suo libro papa Francesco?
«Il mio libro sulla misericordia era uno strumento per i sacerdoti, dedicato alla preparazione delle omelie per i loro esercizi spirituali. L’edizione spagnola uscì tre giorni prima del Conclave. Conoscevo papa Francesco come arcivescovo di Buenos Aires, dove ero stato qualche volta, così gli donai una copia dell’edizione spagnola, che lui lesse proprio durante il Conclave. Era però ovvio che per lui questo tema era molto importante già da molto prima e, quando gli ho dato il libro, ha letto il titolo e ha esclamato: “Misericordia: questo è il nome del nostro Dio, senza di lui saremmo perduti”. L’allora cardinale Bergoglio stava già riflettendo su questo argomento, ma poi la lettura del libro lo ha confermato nel suo pensiero e, a sorpresa anche per me, lo ha menzionato nel suo primo Angelus».
C’era bisogno di un Giubileo della misericordia?
«Era opportuno dedicare un Giubileo alla misericordia, perché questo è un messaggio centrale dell’Antico e del Nuovo Testamento, ma spesso un po’ dimenticato. Il popolo di Dio ha bisogno della misericordia che, però, nella teologia ufficiale del XX secolo e di conseguenza nella predicazione della Chiesa, era spesso dimenticata: si parlava di un Dio che punisce, un Dio rigoroso e che fa paura… mentre questo messaggio di Gesù è liberante, gioioso per tutti, e noi per questo siamo grati di questo Giubileo».
A quasi un anno dalla fine del Giubileo, che cosa resta della misericordia?
«Questo anno giubilare ha confermato la coscienza della misericordia di Dio e questo è entrato nel cuore delle persone, non solo nella mente, dappertutto, perché ogni cristiano sa di aver bisogno della misericordia: siamo tutti peccatori. E d’altra parte ognuno ha anche bisogno dei vicini, di donne e uomini misericordiosi, della misericordia degli altri che ci perdonano. A mio avviso, questo ha anche un po’ cambiato la predicazione della Chiesa e rinsaldato nei credenti la gioia di essere cristiani, di non avere paura di Gesù né di Dio, o del futuro di questo mondo che è certamente molto turbato, ma dobbiamo avere coraggio perché la misericordia di Dio c’è e ci accompagna in questa vita e in quella futura».
Quindi, in qualche modo, ha cambiato anche il modo di pensare dei sacerdoti…
«Lo spero, perché questo modifica anche il modo di predicare su Dio e sul Vangelo, perché Dio è misericordioso e noi possiamo avere sempre fiducia in lui. L’uomo di oggi, anche come conseguenza della crisi dell’Occidente, ha paura del futuro, ma il Vangelo è il messaggio della gioia: è importante ricordarlo e anche un grande “nemico” della Chiesa e del cristianesimo, come Nietzsche, ha detto che i credenti dovrebbero essere più gioiosi. Un cristiano che si lamenta, che è sempre triste, non è un vero cristiano; un certo senso dell’umorismo, pur fra tutti gli attuali problemi di ogni giorno, è necessario ed è un’importante testimonianza che dobbiamo dare al nostro tempo».
In che direzione sta andando la Chiesa di Francesco?
«Francesco non è né un conservatore, né un progressista. È un cristiano radicale, nel senso di un uomo che va alle radici del Vangelo. Il suo comportamento è ispirato alla vita di Gesù, che era a fianco dei piccoli, i poveri, i malati. Ha iniziato un nuovo stile del papato, parla non soltanto tramite le parole ma anche attraverso i suoi gesti e il suo comportamento, e questo mi pare molto importante perché le parole della Chiesa spesso non sono più comprensibili per gli uomini di oggi, soprattutto per i giovani, mentre i gesti, i simboli parlano. Questo è il carisma di Francesco: dare testimonianza della gioia, della misericordia di Dio e della speranza che possiamo avere. Del resto, lui stesso è un uomo gioioso…».
Il Sinodo sulla famiglia si è concluso: a quali famiglie si rivolge oggi la Chiesa?
«La Chiesa parla a tutta l’umanità e a ogni persona, nessuna è esclusa. Ma, soprattutto, il Papa vuole parlare ai “poveri”, nel senso più ampio del termine, perché la povertà non è soltanto quella economica, ma anche quella spirituale, morale e di comunicazione, molti sono isolati. Questi sono i “primi scelti”, i prediletti da Gesù e così ha fatto anche papa Francesco: dove c’è sofferenza, dove c’è bisogno, lì la Chiesa deve essere presente con il suo messaggio. Ciò non esclude i ricchi e i benestanti, ma quelli sono, per così dire, i “primi”».
Quale bilancio può trarre da questo Sinodo?
«La famiglia è un’istituzione dell’umanità intera, sin dall’inizio, già fondata nella Bibbia, precisamente nella Genesi, ed è il posto dove anche oggi la grande maggioranza delle persone, anche dei giovani, cerca una vita buona che faccia sentire “a casa”, dando significato alla propria esistenza. La famiglia non è un modello che sta morendo, ma è il futuro dell’umanità e della Chiesa. Oggi la famiglia vive un momento di crisi e per questo era molto importante il Sinodo. Purtroppo, tutta la discussione post-sinodale si è ridotta alla comunione ai divorziati: sono problemi, certo, ma non si può ridurre l’Amoris laetitia a questa questione, che certamente esiste, ma — come dice il Papa — per un problema tanto complesso non possono esserci regole troppo rigide. Chiunque abbia un po’ di esperienza umana e pastorale sa che non esistono solo i divorziati risposati, ma ci sono situazioni molto diverse che richiedono il discernimento di cui parla il Papa. E il discernimento è di tradizione ignaziana, soprattutto, ma era già un aspetto molto importante dei Padri del deserto, della Chiesa. Il discernimento è oggi un po’ dimenticato, anche perché è una via più difficile rispetto all’avere regole concrete che si applicano automaticamente».
Questo concetto di vicinanza della Chiesa a tutti emergerà anche nel Sinodo dei giovani?
«Certamente: loro, anche biologicamente, rappresentano il futuro dell’umanità».
Lei è un grande studioso di Lutero: a 500 anni dalla Riforma, quale può essere una strada comune tra cattolici e protestanti?
«Ho l’impressione che questo anno abbia dato nuovo impulso al nostro impegno ecumenico e nuovo slancio. Non ha portato soluzioni concrete, ma una volontà di camminare insieme, e questo è importante perché la divisione dei cristiani in tante Chiese è uno scandalo per il mondo: non possiamo, né dobbiamo, abbandonare la fede cattolica, ma occorre condividere con gli altri la nostra fede, imparando dagli altri, così come loro devono imparare da noi. In egual misura avviciniamoci a Gesù Cristo, e saremo anche uniti fra di noi».